Centocinquant'anni di impressionismo. Quei ribelli geniali che dipingevano come nessuno prima

Stefano Picciano

Nella primavera del 1874 la prima esposizione ufficiale di quegli artisti che dipingevano ciò che si vede e non “ciò che si sa”. Era il tramonto dell’idea che la bellezza dovesse coincidere con l'armonia. E la scoperta del fatto che ciò che osserviamo è inesauribile

“Non ho fatto altro che guardare”: le parole di Claude Monet compendiano uno dei capitoli più affascinanti dell’arte, che ebbe origine centocinquant’anni fa, a Parigi, con la prima esposizione ufficiale dei pittori impressionisti. Era la primavera del 1874 e in boulevard des Capucines vennero esposte 163 opere, tra cui la celeberrima tela di Monet da cui l’intera corrente pittorica avrebbe tratto il suo nome. Fu un critico, guardando l’opera, a utilizzare il termine impressionismo: mutevolezza, variabilità, annullamento delle convenzioni pittoriche. Il rivoluzionario proposito di dipingere ciò che si vede e non “ciò che si sa” determina il rifiuto della linea, l’abolizione del contorno, l’eliminazione di ogni mediazione dell’intelletto, la rinuncia a qualsiasi filtro nel rapporto che intercorre tra la retina e il mondo. Sulla tela finisce, in una sorta di somma valorizzazione dell’istante, ciò che giunge alla vista nella sua immediatezza.

 

Questa pittura, che non si preoccupa di individuare soggetti che avessero una declinazione morale o etica, bensì semplicemente di cogliere un frammento della realtà così come essa si presenta allo sguardo in un attimo unico e irripetibile, fu considerata “un attentato ai costumi dell’arte”, una mancanza di rispetto per i maestri. Proprio quei “maestri” che, negli stessi giorni, presentavano le loro opere nelle gallerie ufficiali, riscuotendo – loro sì – i consensi del pubblico e guardando con sufficienza la sorte di quei “ribelli” che si esponevano alla derisione dei critici.

 

Ancora due anni più tardi, in occasione di una mostra, si scriveva: “Dite al signor Pissarro che gli alberi non sono viola, (…) che in nessun paese si vedono le cose come lui le dipinge”; e altrove: “Questi sedicenti artisti (…) prendono un pezzo di tela, colori e pennello, vi buttano qualche tratto di colore a casaccio e firmano il risultato con il loro nome”.

 

Poche migliaia di visitatori giunsero, nell’arco di più di un mese, all’esposizione che fu dagli stessi protagonisti considerata un fallimento. Commenta Ernst Gombrich: “Fu questa mancanza di rifinitura, questa tecnica sommaria che fece perdere le staffe ai critici. (…) Ci volle tempo per far capire al pubblico che, per apprezzare un quadro impressionista, bisogna allontanarsi di qualche passo e gustare il miracolo di vedere queste macchie enigmatiche prendere forma e animarsi”. E’ la luce, continuamente diversa, a rendere nuove le cose: “Altri pittori – scrisse Monet – dipingono un ponte, una casa, una barca… io voglio dipingere l’aria che circonda il ponte, la casa, la barca, la bellezza della luce in cui esistono”.

 

   

Era il tramonto dell’idea che la bellezza dovesse coincidere con nitidezza, linearità, armonia. Era la scoperta del fatto che ciò che osserviamo è inesauribile, che più poniamo il nostro sguardo sulle cose più esse si svelano a noi nella loro infinita variabilità e, soprattutto, nel mutevole rapporto con l’osservatore. Nel 1892, a Rouen, Monet avrebbe realizzato diciotto tele della medesima facciata della cattedrale, osservata nelle diverse ore del giorno. L’anno successivo, guardandole in esposizione, un critico affermò che “le tele avrebbero potuto essere cinquanta, cento, mille. Tante quanti i minuti della vita”.