Nino dalle 7 vite, la breve storia e la morte misteriosa di Martoglio

Maurizio Stefanini

Gran polemista, si dedicò anche al teatro e al cinema, con le migliori menti siciliane dell’epoca

Secondo la leggenda, un fantasma si aggira nel reparto di pediatria dell’antico ospedale Vittorio Emanuele II di Catania. Veste un mantello e un cappello a falde larghe da inizio ’900, appare soprattutto nelle notti di luna piena e si dibatte tra il corridoio e una stanza, senza pace. Cammina, si siede, si rialza, come se non volesse distaccarsi dalla terra dalla quale è stato prematuramente ingoiato. Per pensare che vi sia davvero, ovviamente, bisogna credere ai fantasmi. Ma certi miti non nascono dal niente, e la descrizione corrisponde al profilo reale di Nino Martoglio: un personaggio oggi quasi dimenticato, ma all’epoca famoso da dare appunto origine a una leggenda.


Era nato a Belpasso, alle pendici dell’Etna, il 3 dicembre del 1870. Il padre Luigi, palermitano di origine piemontese, era stato un garibaldino, un mazziniano e un giornalista col “vizio” del j’accuse, collezionista di querele per diffamazione, e schedato in questura come irriducibile sovversivo. La madre, Vincenza Zappalà Aradas, era una maestra di scuola catanese. Nato nel paesino dove insegnava la madre ma di carattere inquieto come il padre, a 14 anni Nino lascia il classico per il tecnico, poi il tecnico per le magistrali, poi le magistrali per il nautico.  “Ero avido di avventure e volevo intraprendere una carriera che mi permettesse di incontrarle”, racconterà di quando si imbarca a quindici anni, per solcare il Mediterraneo e il Mar Nero. In una sosta a Trieste ha il primo amore con una ragazza ebrea “dalle lunghe chiome d’oro, dagli occhi grandi, azzurri come questo mare tranquillo e iridescente”. Ma a Trieste incontra anche la zingara che gli legge la mano, e gli predice una morte violenta a soli cinquant’anni. 
Appunto, a 51 anni non compiuti Martoglio muore, la sera del 15 settembre 1921. Uscendo da una stanza dove il figlio è ricoverato, e precipitando in quella che ufficialmente è stata definita la tromba di un ascensore ancora in costruzione, ma che altri indicano come un semplice pozzo luce. Ci è caduto dentro per distrazione? Lo ha attestato l’indagine ufficiale, e lo hanno accettato le figlie. Lo storico Santi Correnti, autore di tre saggi biografici su di lui usciti tra il 1971 e il 1984, insiste che malgrado la sua estrema miopia il povero Martoglio si ostinava ad andare in giro senza occhiali per vanità, e cita anche il dialogo di una sua commedia per dimostrarlo. 


Oppure, fu un delitto? Lo accenna la leggenda, lo crede il pronipote, e su questa ipotesi ha scritto un libro Luciano Mirone: un giornalista catanese specializzato in indagini sulla mafia. Il caso Martoglio Un misfatto di stato alla vigilia del fascismo è il titolo. Edizioni L’Informazione, dalla testata online che Mirone dirige. Accantonata anche la fascinazione per i viaggi in mare, l’adolescente Martoglio sentì alla fine il richiamo delle battaglie paterne, andando a lavorare in due testate che proprio Luigi aveva fondato: la Gazzetta di Catania e il Corriere di Catania. Ma già nel 1889, a 19 anni, fonda un suo settimanale satirico, scritto anche in siciliano, e dove pubblica poesie poi raccolte in due volumi: Centona, con la prima prefazione di Luigi Capuana e la successiva di Luigi Pirandello; e Cose di Catania. 


“D’Artagnan” è il titolo del foglio: indicativo di una vocazione alla singolar tenzone non solo metaforica. In sedici anni Nino metterà alla berlina il potere conservatore, da secoli abituato a fare il bello e il cattivo tempo in città,  subirà oltre duecento querele e intraprenderà ventuno duelli. Non solo per ragioni politiche e giornalistiche, ma anche sentimentali. Andando oltre il padre mazziniano, Martoglio si lega a Giuseppe De Felice Giuffrida: deputato dal 1892; leader dei moti dei Fasci Siciliani, condannato nella repressione crispina da un tribunale militare a 18 anni, poi amnistiato dopo due; dal 1902 sindaco di Catania; dal 1914 per i suoi ultimi sei anni di vita presidente del Consiglio Provinciale. Tipico esempio di una sinistra rivoluzionaria che grazie al clima dell’era giolittiana si converte in sinistra riformista, massone e anche interventista, De Felice è una sorta di Ernesto Nathan siciliano, che tenta di fare leva sull’industria dello zolfo per fare di Catania una “Milano del Sud” ricca di fermenti culturali, capitale, assieme a Torino, del primo cinema italiano che ispirerà Cinecittà, ma anche capitale del verismo. Nell’archivio consultato da Mirone ci sono scambi di lettere di Martoglio con Vittorio Emanuele Orlando, Giovanni Verga, Luigi Capuana, Federico De Roberto, Roberto Bracco, Giovanni Grasso, Angelo Musco, Ruggero Ruggeri, Marco Praga, Dario Niccodemi, Lucio D’Ambra, Silvio D’Amico, Renato Simoni, Pippo Marchese “e tantissimi altri”. 


“Il nuovo sindaco fa grandi riforme sul piano urbanistico e infrastrutturale”, ricorda Mirone. “Nascono l’acquedotto cittadino, l’impianto di fognatura, la tranvia, una grande area industriale a ridosso del porto dove si realizza l’asse con la ferrovia: questo determina la costruzione di una cintura industriale per gli stabilimenti chimici preposti alla raffinazione e all’esportazione dello zolfo. Il ‘viceré socialista’ passa alla storia anche per la creazione dei ‘forni municipali’ che servono a mitigare la povertà di migliaia di catanesi. Sono gli anni in cui si sviluppano l’agrumicoltura alla Piana di Catania e il vigneto nelle terre forti delle pendici etnee. Il porto di Catania è il polmone che lancia verso una dimensione internazionale l’economia locale”.


Oltre a sostenere De Felice con i suoi articoli, Martoglio nel 1902 viene eletto consigliere comunale. Ma si innamora dell’aristocratica Amelia Torresi, i cui parenti stanno in Consiglio comunale con la destra. Lei ricambia, ma il mancato cognato Francesco, noto avvocato e abile spadaccino, lo sfida invece a uno dei 21 duelli. E il giornalista quasi ci rimette la pelle, gravemente ferito alla giugulare. Soccorso con vari punti di sutura, a 34 anni decide di cambiare aria, per recarsi a Roma. Disastro per la povera Amelia, costretta dalla famiglia a sposare un ufficiale greco che muore quasi subito. La donna non si risposerà e resterà sola e infelice. Paradossale fortuna per Nino, che in capo a un anno conosce e sposa la sarda Elvira Schiavazzi: di 14 anni più giovane, sorella di un famoso tenore, gli dà due figlie femmine e due maschi. Soprattutto, però, Roma è la grande occasione per proiettare ciò che ha già iniziato a fare a Catania su un piano nazionale. Lì rivede uno scrittore di Agrigento, Luigi Pirandello, che è timido e introverso, e che è famoso per i suoi romanzi. E’ Nino, secondo l’ampia documentazione rinvenuta, che lo convince a passare al teatro, contribuendo così in maniera decisiva a far partire il percorso che porterà a un Nobel per la Letteratura.  


Ma Martoglio ispira anche Gabriele D’Annunzio, che avrebbe avuto l’idea della “Figlia di Iorio” dopo aver visto il Teatro Siciliano da lui portato a Roma. Già nel 1901 aveva infatti creato la Compagnia Drammatica Siciliana, con attori come Giovanni Grasso, Virginia Balistrieri, Giacinta Pezzana e Totò Majorana: e Grasso diventerà il modello che influenza i grandi maestri del Novecento come lo Stanislavskij del famoso metodo, Antoine, Strasberg, Craig e Mejerchol’d. Nel 1902 c’è appunto il successo strepitoso a Roma; nel 1903 a Milano; dalla stagione 1907-1908 diventa direttore della formazione capitanata da Angelo Musco, con cui scrive una grande quantità di commedie. La più famosa è forse “San Giovanni Decollato”, del 1908: occasione di una lettera del 1909 in cui Vittorio Emanuele Orlando lo definisce “Goldoni italiano”, e interpretato nel 1940 al cinema in uno dei primi grandi successi di Totò.  Nel 1910 fonda a Roma la struttura stabile del primo “Teatro minimo” presso il Teatro Metastasio: curando la regia di numerosi atti unici del repertorio italiano e straniero, e soprattutto portando sulla scena le prime opere teatrali di Luigi Pirandello, assieme a cui scrive anche due commedie. L’ultima sua compagnia teatrale è fondata nel dicembre 1918.


Dal 1913 inizia a dedicarsi anche al cinema. Soggettista per la Cines, da cui nascerà Cinecittà, esordisce come regista in un film che si intitola “Il romanzo” che ha come attore Carmine Gallone, in futuro anche lui famoso regista. Poi Martoglio diventa direttore artistico di una Morgana Film con cui tra il 1914 e il 1915 dirige tre film:  nel 1914 “Capitan Blanco; poi “Sperduti nel buio”, dall’omonimo dramma di Roberto Bracco, che una parte della critica e degli storici del cinema considerano antesignano del neorealismo; infine “Teresa Raquin”, da Émile Zola. L’epistolario contenuto nel Fondo depositato presso il Museo biblioteca dell’attore di Genova contiene lettere in cui Martoglio offre collaborazioni cinematografiche a Verga e Pirandello: a quest’ultimo, per dare una mano in un periodo di ristrettezze economiche.


Insomma, ormai i Martoglio sono romani, nel 1920 hanno passato la villeggiatura all’Isola del Giglio, ma a fine 1921 si trovano per due mesi ai Giardini di Taormina. Ospiti di un amico che ha messo loro a disposizione una villa sul mare circondata da gelsomini e bouganville. Ma proprio lì il figlio Luigi Marco, di undici anni, si è ammalato di paratifo, malattia che all’epoca poteva portare anche alla morte. La sera del 15 settembre, dunque, i genitori hanno accompagnato il ragazzo in ospedale, con una carrozza che arriva tra le 20 e le 20.30. Il ragazzino viene ricoverato in una struttura isolata, deserta e al buio. La madre resta col figlio ricoverato, mentre un’infermiera si sistema nella stanzetta accanto. Il padre dovrebbe recarsi in città. “La porta della camera rimase aperta e io ascoltai i passi di mio marito che si allontanava e non intesi alcun rumore”, racconterà la signora Martoglio.


Non lo vedrà più vivo, come non lo vedono il direttore e un infermiere che quella sera lo aspettano con una carrozza della amministrazione ospedaliera. “Quello che le carte giudiziarie non dicono”, secondo Mirone, “è che sul posto c’è una quinta persona, anzi una grande personalità che potrebbe dare una preziosa testimonianza: l’onorevole Carlo Carnazza, massone, potente deputato conservatore, avversario politico di Martoglio per molti anni e direttore del Giornale dell’Isola, il quotidiano più letto in città. Carnazza è il perno di questa storia: nessuno si permetterà di mettere in discussione la sua posizione”. Lo dirà lui sul suo giornale che stava aspettando Martoglio.


Non vede niente neanche la guardia notturna. Nel frattempo il campanile della chiesa scandisce le dieci meno un quarto, e poi le dieci, e poi le dieci e un quarto, e poi le dieci e mezzo. “A questo punto il direttore incarica l’infermiere Calì di tornare nella stanza di Luigi Marco per chiedere notizie del regista. L’infermiere sale, bussa e gli viene risposto: Martoglio è andato via da un bel po’. Da quanto?”. La moglie indica mezz’ora, l’infermiere un’ora e mezzo. La moglie verrà tacciata di indifferenza, ma è evidente che in quel momento è preoccupata soprattutto per il figlio. Altri parenti e amici iniziano a cercarlo, ma l’ospedale non fa niente. Direttore e infermiere si convincono che Martoglio deve essere rimasto con la moglie, e senza neanche verificarlo se ne vanno a dormire.
 Alle 8 secondo alcune carte, alle 12 secondo altre, il direttore ritrova un corpo nella tromba dell’ascensore. A faccia in giù secondo lo stesso direttore; a faccia in su secondo quanto dichiara il ragioniere dell’ospedale alla polizia. Magistratura e polizia non si presentano in ospedale per accertare la presenza del cadavere – come impone il Codice di procedura penale. Non delimitano il posto nel quale è stato rinvenuto il corpo per evitare l’inquinamento dei luoghi. Non effettuano fotografie o disegni del cadavere. Non stilano un verbale di immediato sopralluogo. Quel che è peggio è che invitano il personale del Vittorio Emanuele a rimuovere il cadavere per effettuare il riconoscimento. Si presenteranno ufficialmente sul posto solo alle 11.30 del 17 settembre. In questo guazzabuglio di contraddizioni, il pubblico ministero trova anomala la posizione del cadavere. Il direttore conosce Martoglio da una vita, ma non lo identifica. Un medico e un infermiere riconoscono invece Salvatore Caminiti: un cocchiere con precedenti penali che cammina appoggiato a un bastone ed è ricoverato in ospedale da tre anni per problemi di sifilide, e che avrebbe manifestato propositi di suicidio. Solo alle 14 salta fuori che Caminiti è ancora vivo, e solo alle 17.30 Martoglio viene definitivamente identificato. 
Il libro pone un dubbio: Martoglio è morto subito o è rimasto in agonia per ore? Ma c’è un dubbio ancora più grave: è caduto davvero, o è stato ucciso con una spranga o una mazza e depositato in quel luogo per simulare la morte accidentale? L’autopsia, che avrebbe potuto accertare scientificamente le dinamiche del decesso, non viene ordinata. Viene eseguito solo un esame esterno che stabilisce “una ferita lacero contusa con notevole incavo al centro della fronte”. Secondo Cristoforo Pomara, professore di Medicina legale dell’Università di Catania (consultato dall’autore del libro), si tratta di una lesione “compatibile” con una percossa sferrata da un corpo contundente, non certamente con una caduta accidentale.


Quella dell’ospedale e delle autorità è stata solo distrazione, o un voluto depistaggio? Mirone dedica varie pagine a esaminare referti e testimonianze.  “Nel cono d’ombra del presunto delitto Martoglio”, spiega, “ci sono due fatti, non per forza due ipotesi, ma due fatti che meritano di essere raccontati affinché il lettore si faccia un’idea di ciò che sta succedendo al commediografo poco tempo prima della sua morte. Il primo riguarda la ‘guerra’ fra le Case cinematografiche catanesi e Martoglio, il secondo il possibile progetto di un nuovo D’Artagnan, da fare a Roma, alla vigilia del fascismo”. 


Che c’entra Carlo Carnazza con questa storia? Una settimana prima il politico si vede con Martoglio. ufficialmente per parlare della malattia del figlio del commediografo. La sera del 15 settembre, quando l’artista sparisce, si trova in quel posto, quasi a presidiare il territorio. Quando Nino muore mistifica gravemente i fatti, operando un vero e proprio depistaggio, attraverso il Giornale dell’Isola.
 “Boss” della politica isolana, Carlo era fratello del Gabriello Carnazza ministro dei Lavori pubblici rimosso da Mussolini un mese dopo la scomparsa di Matteotti in un tentativo di allontanare tutti i possibili coinvolti nella vicenda, anche perché strettamente collegato al Filippo Filippelli noleggiatore della Lancia Kappa servita a rapire e a uccidere il leader socialista (e poi autore di un memoriale ricattatorio). E qui viene evocata la vicenda della maxi tangente di 30 milioni di vecchie lire versata dalla compagnia petrolifera americana Sinclair Oil Company a tutto l’establishment fascista – auspice, secondo lo storico Mauro Canali, lo stesso Carnazza – attraverso Arnaldo Mussolini, fratello del Duce, per la campagna petrolifera in Sicilia e in Emilia Romagna. Uno scandalo su cui avrebbe messo le mani Matteotti che toccava la stessa Casa Reale, visto che Vittorio Emanuele III sarebbe stato azionista della compagnia americana dal 1921. Secondo Mirone “Martoglio muore in altre circostanze, ma una parte del contesto è lo stesso che tre anni dopo stritolerà il leader socialista”.

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