L'invidia di Giotto alla Cappella degli Scrovegni di Padova - foto Wikipedia

La lettura

Un libro di Helmut Schoeck sulla potenza distruttiva dell'egualitarismo

Carlo Marsonet

In "Democrazia e definizioni" Giovanni Sartori spiegava due aspetti del principio di eguaglianza. Uno di questi ha, secondo il politologo, come motore principale l'invidia. Il sociologo austriaco Schoeck ne analizza gli aspetti in "L'invidia e la società"

In un aureo volume uscito nel 1957, "Democrazia e definizioni", Giovanni Sartori forniva due interpretazioni del principio di eguaglianza, confliggenti radicalmente. Da un lato, può intendersi come una “circolazione aperta”, “un sistema di mobilità tale che ognuno (…) sia messo in condizione di sviluppare le sue capacità”: tale è la visione liberale che, in fondo, mira ad allevare “aristocrazie qualitative” tramite la libertà. All’opposto risiede invece una concezione dell’eguaglianza molto diversa, in quanto si prefigge di uniformare, livellare, appianare tutto: questa eguaglianza è vorace, poiché l’obiettivo è l’omogeneità assoluta.    

Alla radice della seconda interpretazione non è difficile scorgere un sentimento che pochi ammetteranno, in quanto negativo per costituzione (e dunque non socialmente lodevole), ma che ne è invece il motore: l’invidia. Helmut Schoeck (1922-1993), sociologo austriaco ma poi, per studiare e in seguito insegnare, trapiantatosi tra Germania e Stati Uniti, ne ha scritto un volume uscito originariamente in tedesco nel 1966 e da poco riproposto, dopo quasi vent’anni, da Liberilibri: "L’invidia e la società". Si tratta ormai di un classico su un tema che è difficile maneggiare con cautela proprio perché va a toccare un nervo molto sensibile, che è quello per l’appunto dell’eguaglianza e della sua ideologia, l’egualitarismo.

Schoeck si muove su un piano che potremmo definire di realismo politico. L’invidia è infatti un problema centrale dell’esistenza umana: l’uomo, scrive l’autore, è una creatura invidiosa per natura. Se così è, ne consegue la pressoché totale impossibilità di disfarsene. Ma un conto è vellicare tale istinto, costruendoci magari sopra, sebbene non esplicitamente, un programma politico; altra cosa è servirsene limitatamente, usandolo in maniera cauta e moderata, sapendo che non può essere mai del tutto eliminata. 

Perché l’elemento essenziale dell’invidia rimane uno solo: “lo struggente desiderio che nessuno abbia qualcosa, il piacere di distruggere a danno degli altri, senza che da questo derivi il pur minimo utile”. Quando insomma l’eguaglianza si tramuta in egualitarismo, questo non conosce freni, poiché si è messo in moto un meccanismo che si nutre di qualcosa che crea assuefazione, il livellamento. E quando questo spirito distruttivo viene portato alle estreme conseguenze, come per alcune popolazioni primitive, l’istituzionalizzazione dell’invidia causa la stasi, l’arresto assoluto della mobilità sociale: l’eguaglianza ha così schiacciato la libertà di migliorare la propria condizione in nome dell’unanimismo.

L’economista Ludwig von Mises sosteneva che l’individualismo, contrariamente a quanto si ritiene generalmente, implica una teoria della cooperazione sociale. Il singolo, infatti, non può che collaborare con gli altri per ottenere di che vivere: la storia della civiltà è la storia di individui che attraverso la cooperazione sociale hanno tenuto a bada la scarsità, la quale non è che la condizione di partenza degli uomini. Attraverso l’invidia, negatrice dell’individualismo, può ottenersi solamente la distruzione di ricchezza. Il socialismo, allora, non è che il risveglio di un atavismo tribale che mira a frenare lo sviluppo per preservare la coesione organicistica. 

Nel momento in cui l’invidia viene issata come legittimo principio regolatore di una società, si instaura un pericoloso cortocircuito: al posto di un suo limitato uso, che può essere benefico poiché instilla il desiderio di migliorarsi, l’invidia diventa l’acido corrosivo della stessa cooperazione sociale. È stato Alexis de Tocqueville a osservare come, seppure l’eguaglianza fosse un fatto “provvidenziale”, essa potesse aprire due strade, antitetiche: quella della servitù, della barbarie e della miseria, ovvero quella della libertà, della civiltà e della prosperità. La strada dell’invidia, conclude Schoeck, porta alla distruzione della società, e quindi alla fine della cooperazione e della generazione di ricchezza.

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