La recensione

Duhamel, l'antimodernista che cercava la santità

Luigi Azzariti-Fumaroli

Torna in libreria “Confessione di mezzanotte” dello scrittore francese. Medico come Celiné, per Giovanni Papini autore capace di scrivere "libri d’amore che nessun cappellano ha saputo scrivere"

Su una parete d’una sala piuttosto anonima del Museo Carnavalet, il ritratto di Georges Duhamel, opera di Bençion Rabinowicz (più noto col nome di Benn), sembra scrutare con circospezione chi si soffermi a guardarlo. Raffigura un uomo avanti con gli anni, con un viso pieno e rotondo, l’incarnato d’alabastro, appena soffuso d’un rosa pallido, gli occhiali rotondi, l’abito grigio tortora, di foggia antiquata e d’un tono appena più scuro del panciotto, il farfallino blu, che gli conferisce un aspetto serio e autorevole, quale si confà alla professione da lui esercitata. È stato un medico, sebbene non per lungo tempo. Tuttavia – notò André Maurois commemorandolo – egli dovette alla scienza medica «la sua metafisica e la sua morale, una morale costruita con coraggio su una conoscenza disincantata degli uomini, delle loro debolezze e delle loro ignoranze». Fu forse per questo che si dedicò quasi subito alla scrittura. Dall’esperienza della Grande Guerra – che gli parve, non diversamente da quanto fosse sembrata ad un altro medico entrato precocemente nella scrittura, Céline, un’immensa, universale «moquerie» – trasse materia per due libri, “Vie des Martyrs” e "Civilisation" – quest’ultimo premiato, nel 1918, col Goncourt. Giovanni Papini, in una lettera a Domenico Giuliotti del giugno 1930, avvertiva che non si trattava di romanzi bellici assorbiti nella descrizione di soldati ingolfati nelle trincee d’uno sfiancante conflitto di posizione, ma d’un catalogo di virtù pietose e benefiche: «libri d’amore che nessun cappellano ha saputo scrivere», forse perché, come il protagonista dell’altra sua opera più importante, “Vie et aventures de Salavin”, alla ricerca d’una santità che, per esser tale, è sempre data a quei soli che se ne giudicano indegni.

 

O forse perché l’“ipocrisia dei religiosi” non si conforma affatto al compito che Duhamel ha affidato alla propria scrittura: «esprimere esattamente ciò che si pensa». Gesto in realtà assai complesso – notava ne “L’arte del romanzo” Milan Kundera –, dal momento che ogni infedeltà semantica rischia di falsificarlo. Solo una precisione assoluta può darvi forma, così da restituire asetticamente il monologo oggettivo, introflesso e spudorato, della coscienza. È del resto l’inverecondia che si riserva a sé stessi a far confessare a Salavin, nel primo dei sei volumi del ciclo che ne descrive la parabola esistenziale, “Confessione di mezzanotte” (uscito nel 1950 e solo ora pubblicato in italiano dalla neonata editrice AGO, nella felice traduzione di Caterina Miracle Bragantini), che «non si dovrebbe mai provare gioia; quando questa se ne va lascia un dolore troppo crudele». Sentenza invero capace di rivelare un’indole troppo meschina e banale per condividere la sfrenatezza desiderante, sia pur velata da un certo agostinismo, del Fruges di “Se fossi in te…”, benché del personaggio creato nel 1947 da Julien Green Salavin condivida certo l’estrazione e più d’un tratto psicologico. Piuttosto Salavin sembra discendere dal Roquentin sartriano, simbolo patetico dell’uomo schiacciato dall’assurdità del mondo, murato nella propria solitudine e che nondimeno cerca la salvezza nell’inventario delle sue poche, fragili risorse. Ma soprattutto in lui è dato riconoscere una certa somiglianza con il flâneur tratteggiato da Baudelaire, in ragione del suo osservare una Parigi da lui stesso creata, perché, data la rapidità delle sue manifestazioni, richiede uno sguardo che la fissi senza snaturarla, testimoniando paradossalmente la sua inattingibilità, la sua mobilità, la sua frammentarietà.

La capitale francese è, per Duhamel, emblema di una tradizione che la modernità minaccia di intaccare e corrompere. Il suo antimodernismo, oscillante fra la satira divertita e la polemica, implica però sempre una riflessione poetica, come testimonia il racconto dedicato al V° Arrondissement, quartiere che fa da sfondo anche al vagabondare di Salavin, al suo procedere quasi sonnambolico, «sprofondato in vecchi pensieri, ricordi, sogni senza forma». Il reticolo di strade attorno alla Montagne Sainte-Geneviève, appartato e solitario, sembra riuscire ad offrire la migliore possibilità d’un apprendistato con le ombre. Non, come ne “La Drogue” di Léon-Paul Fargue, con quelle brulicanti nella città stessa, ma con quelle che, simili ad una «macchina onnipotente», ci catturano e manipolano, incuranti delle nostre decisioni; e da cui, come Salavin, siamo ora soggiogati ora irretiti. Poiché fuggirvi, significa ritrovarsi, non potendo mai finire di confrontarci con quel «nulla popolato di nulla tormentosi» in cui si concreta il mai finito oscillare fra l’amore di sé fino all’esclusione del resto e la volontà d’abolizione di sé nelle sue espressioni più varie.