Donatien Alphonse François De Sade - Wikimedia commons 

La recensione

L'erotismo messo in scena (quasi) solo a parole nel boudoir di De Sade

Marco Archetti

Una riedizione della disobbedienza e della filosofia libertina del Divin Marchese in cui la voluttà criminale, rispetto al solito, resta fuori dalla porta

"Non è stato il mio modo di pensare a causare la mia infelicità, ma il modo di pensare degli altri. Questo mio pensiero che biasimate è la sola consolazione della mia vita”. Novembre 1783. Donatien Alphonse François De Sade lo scriveva alla moglie e per anni gli editori hanno copincollato queste parole su copertine e retrocopertine direttamente da una lettera (giustamente) famosissima che ha la veemenza di una fissazione e l’accorata autorevolezza di un messaggio in limine mortis. E del resto c’è tutto un marketing letterario e un’aneddotica falsosimigliante in tema “ultima frase detta prima di morire” – Cechov avrebbe chiesto una coppa di champagne, Jarry uno stuzzicadenti, Goethe più luce; Oscar Wilde, insuperabile: “O se ne va questa carta da parati o me ne vado io!”.


In realtà Sade scrisse queste righe una decina di anni prima di comporre “La filosofia nel boudoir”, opera in sette dialoghi ambientati in camera da letto, opera che Einaudi, con salutare sprezzo del pericolo, manda in libreria croccante di gioiosa ritraduzione da parte di Patrizia Valduga. Si trovava, il Divin Marchese, sul ciglio di qualcosa che, però, alla morte somigliava: la Bastiglia. Imprigionato, vivrà cinque anni di solitudine studiando Lucrezio e Rousseau, scrivendo a metri su rotoli di carta facili da occultare, e masturbandosi alacremente, sfogo inevitabile per uno che, fino a quel momento, aveva accumulato vita per dieci autobiografie – è protagonista anche del videogame “Assassin’s Creed”. Numerosi anche gli arresti: il primo a ventitré anni – fustigazione di un’operaia, obbligata a frasi blasfeme – e poi una pletora di incidenti e detenzioni, una fama consolidata di indomabile e svitato (“demenza libertina” fu l’espressione del prefetto che ne chiese l’internamento), una fuga in Italia col servo-amante (cognata appresso, a triangolare in lietezza), una condanna a morte, un’evasione dalla Fortezza di Miolans e insomma, il noto, impetuoso curriculum di un personaggio cui, in vita, la vita fece concorrenza alla bibliografia.

Ma Sade – aveva quattro zie monache – fu anche diplomatico, luogotenente, raffinato cultore di teatro e di attrici. Irriducibile manesco e fluidissimo ante Instagram, educato severamente dai gesuiti, crebbe disorganico a tutti i poteri, rabbioso contro Dio, cantore delle forze della distruzione e della passione, della morte e della natura egoista e indifferente – un leopardismo con l’accetta, il suo: tutto buono pur di non propagare la specie (“fottere, mai generare!”). Autore di un’opera vertiginosa, cruenta, piena di violenza, umor nero e sconcertante radicalità, celebrò il diritto del più forte (“l’omicidio non è distruzione”), l’incesto, la tortura, la pedofilia, la coprofagia e la bestemmia (e sì, anche la passione: “rosa” tra le spine della vita). Un mostro e un monumento. Una macchina delirante e ossessiva: quando verrà scarcerato, caduto Robespierre, vivrà dieci anni prima di essere riarrestato e di morire poverissimo, in manicomio – i figli collaboreranno con l’Autorità nel distruggere la sua opera.


“La filosofia nel boudoir”, come segnala in prefazione Michele Mari, ci fa tirare un po’ il fiato: il pantano della voluttà criminale, rispetto al solito, resta fuori dalla porta. L’opera, mordace e piena di efferato brio, racconta la Disobbedienza. E un’ educazione libertina: quarantotto ore affinché Eugénie, figlia quindicenne di un ricco esattore – quanta impietosa ironia in questa scelta –, si liberi dalla “pusillanimità della vergogna”, apprenda i doveri della lubricità, fugga la virtù e si faccia “amabile depravata” agli ordini di Mme de Saint-Ange, coofficiante, e di Dolmancé, maestro di cerimonie dalle cui labbra stillavano “l’irreligione, l’empietà, l’inumanità, il libertinismo”. A parte qualche frustata e un ago sul finale, qui l’erotismo è tutto verbo: la perversione, prima d’esser praticata, è messa in scena con le parole, e puntigliosamente premessa – “di questo membro, di questo scettro di Venere su cui bisognerà dissertare senza posa…”. Ha le idee chiare anche Mme de Saint-Ange: sfuggire alle geremiadi dei “Donchisciotte dei diritti ordinari” e godere di tutto. “Voglio ricongiungere, in me, tutti i generi”.
 

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