Ernest Hemingway, con il braccio ferito bendato, mentre beve vodka dalla bottiglia, Venezia 1954 (Getty Images)

Di vino e di poesia

Molti capolavori letterari sono stati partoriti tra i fumi dell'alcol. Un catalogo

Maurizio Stefanini

Samuel Beckett era appassionato di whisky. Graham Greene scriveva con un daiquiri in mano. Hemingway i cocktail li creava o li ispirava. Il filosofo Slingerland teorizza che sia stato l’alcol il primo fermento della civiltà. Oggi Carlos Janín pubblica “Excelentísimos borrachos”

Un “battello ebbro” era la metafora del poeta per Arthur Rimbaud, che come “pensiero buono del mattino” chiedeva a Venere “Regina dei pastori” di portare “ai lavoratori l’acquavite / perché si plachino le loro forze / in attesa del bagno in mare, a mezzogiorno”. “Tre cose solamente m’ènno in grado, / le quali posso non ben ben fornire, / cioè la donna, la taverna e ‘l dado: / queste mi fanno ‘l cuor lieto sentire”, confessava Cecco Angiolieri. “Dove non è vino non è amore e null’altro diletto hanno i mortali”, recitava Euripide.  “Oh tu, invisibile spirito del vino, se proprio non hai alcun nome con cui ti si possa chiamare, lascia pur che ti si chiami col nome del demonio!”, invoca l’Otello di William Shakespeare. “Il vino muove la primavera, cresce come una pianta di allegria, cadono muri, rocce, si chiudono gli abissi, nasce il canto”, è la “Ode al vino” di Pablo Neruda. “Il giorno che sarà strappato l’albero della mia vita … Dalla mia argilla si farà, forse, una coppa. Da quella, riempita di vino, io rinascerò”, auspicava Omar Khayyam. “Io libererò dall’esilio il mio popolo, Israele; essi ricostruiranno le città desolate e le abiteranno; pianteranno vigne e ne berranno il vino; coltiveranno giardini e ne mangeranno i frutti”, era la promessa biblica al profeta Amos. “Venere col vino è fuoco aggiunto al fuoco”, si esaltava Ovidio. “Bere è la gioia della Rus’”, disse scandalizzato il principe Vladimir di Kiev agli inviati musulmani quando gli proposero di convertirsi a una religione astemia. E “voglia Dio concedere a tutti noi, a noi bevitori, una morte tanto lieve e bella”, è il finale con cui Joseph Roth saluta il protagonista della sua “Leggenda del santo bevitore”…

  
Basta dunque un rapidissimo volo tra lingue ed epoche per evidenziare il legame tra alcol e letteratura, e tre anni fa il filosofo Edward Slingerland, Distinguished University Scholar e professore di Filosofia all’Università della Columbia britannica, teorizzò addirittura che fosse stato l’alcol fermentato bevuto in compagnia il primo fermento – scusate il bisticcio – della civiltà umana.  “Drunk: How We Sipped, Danced, and Stumbled Our Way to Civilization”, il titolo del suo saggio: “Sbronzi: come abbiamo sorseggiato, ballato e inciampato sulla nostra strada verso la civiltà”. “Excelentísimos borrachos: Un diccionario ilustrado etílico cultural de alcoholes y alcohólicos selectos y notables” è invece un libro dell’inizio di quest’anno dello scrittore spagnolo Carlos Janín. “Eccellentissimi ubriaconi: un dizionario etilico-culturale illustrato di alcolici e alcolisti selezionati e notevoli”: mezzo migliaio di voci, mille illustrazioni, poco più di cinquecento pagine e una bibliografia che supera anche il mezzo migliaio di titoli, per un tour biografico tra diverse figure culturali che si sono dedicate al bere e ai diversi tipi di alcol come l’assenzio, il brandy o l’anice.


“Fin dai tempi antichi, il numero dei grandi uomini inclini al consumo di alcol supera quello dei sobri” vi si ricorda in generale; e, più in particolare, come ben cinque vincitori del Nobel per la Letteratura fossero alcolizzati confessi. Non evidentemente gli unici a cui piacesse alzare il gomito, se si pensa che anche la poesia in assoluto più studiata a scuola del primo premiato italiano risponde a un attacco malinconico di “nebbia agli irti colli” che “piovigginando sale” mentre “sotto il maestrale / urla e biancheggia il mar”, evocando subito a mo’ di lieto esorcismo come “per le vie del borgo / dal ribollir de’ tini / va l’aspro odor de i vini / l’anime a rallegrar”: quello stesso Giosuè Carducci che pure, per sanare le ferite del Risorgimento, proponeva a Papa Pio IX: “Cittadino Mastai, bevi un bicchier!”. Lo studio torna di attualità dopo che a Stoccolma per l’anno 2023 con Jon Fosse hanno premiato l’alcolizzato numero sei: dopo Ernest Hemingway, Harry Sinclair Lewis, William Faulkner, Eugene O’Neill e John Steinbeck.


“Scrivere è come pregare”, ha scritto proprio Fosse, riecheggiando Roth. Anche se, dopo essere stato per anni vicino ai quaccheri ed essere diventato poi un cattolico non ortodosso che va a messa, adesso dice: “Prima l’alcol mi consolava; ora letteratura e messe”. Misticismo a parte, Michel Houellebecq ha spiegato che gli scrittori bevono molto perché scrivere è un lavoro di forza. E quindi la casistica si fa amplissima. “E’ un dizionario caotico ed eccessivo in cui l’unico ordine è alfabetico, che è un ordine artificiale; L’ho fatto come si fanno le collezioni di francobolli, trovo le cose e le metto su una pagina”, ha spiegato del suo libro Janín.
Samuel Beckett, ad esempio, era appassionato di whisky. Graham Greene scriveva con un daiquiri in mano. Hemingway, addirittura, i cocktail li creava o li ispirava. L’Hemingway Special, anche noto come Hemingway Daiquiri o Papa Doble, è ad esempio un any time cocktail basato su una variante del Daiquiri nata nel locale Floridita, a L’Avana, a base di rum bianco. In effetti, il prodotto di punta era lì il Floridita Daiquiri, ma dopo averlo provato lo scrittore, diabetico, recensì: “E’ buono, ma lo preferisco senza zucchero e rum doppio”. Il bartender Constantino Ribalaigua creò dunque l’Hemingway Daiquiri o Papa Doble, che in seguito con l’aggiunta di succo di pompelmo diede vita anche all’Hemingway Special: 6 cl di rum bianco; 1,5 cl di maraschino; 4 cl di succo di pompelmo; 1,5 cl di succo di lime. Si versano tutti gli ingredienti in uno shaker con ghiaccio, si shakera, e si versa in una doppia coppetta da cocktail con uno strainer. 


In Italia, al protagonista di “Addio alle armi”, Hemingway fece bere invece un Martini: tre quarti di gin e un quarto di vermut. Ma anche lì lo scrittore impose poi un cambio di dosi da 3-1 a 15-1, che ribattezzò Montgomery: lo stesso rapporto tra truppe amiche e truppe nemiche, spiegava, che il vincitore di Rommel consigliava prima di assalire il nemico. Ma a volte chiedeva l’altra variante Gibson: rapporto 6 a 1, con guarnizione di cipolline. In Spagna inventò invece il Death Afternoon: un jigger di assenzio in una coppa di champagne colmando con le bollicine fini a raggiungere il bordo del bicchiere. Il Bloody Mary esisteva già, ma rispetto alle dosi classiche faceva aumentare sia la vodka che il pomodoro. Anche Janín inventa cocktail, e di uno intitolato a Guillaume Apollinaire ha inserito nel suo dizionario la ricetta.


Nei suoi libri, però, Hemingway lasciava l’alcol sullo sfondo. Jack London, autore di classici dell’avventura animalisti come “Zanna Bianca” e “Il richiamo della foresta”, dopo un tormentato viaggio a New York all’inizio del 1912, in cui per una sbronza colossale si era rasato a zero, scrisse un romanzo autobiografico che si intitola “John Barleycorn”, da una viva figura luciferina che impersona l’alcol stesso. In italiano spesso tradotto con “Memorie alcoliche”, è l’inizio di una particolare forma di non fiction che avrebbe in seguito caratterizzato il Novecento letterario americano come forma di saggistica narrativa. Ancora più densa di alcol è l’opera intera di Charles Bukowski, anche se in effetti i titoli “Compagno di sbronze”, “Taccuino di un allegro ubriacone” e “L’ubriacone” sono stati dati a edizioni di suoi libri in italiano. “L’alcol ti fa parlare”, “l’alcol apre l’autostrada della parola”, “l’uomo che beve è un uomo interplanetario” sono aforismi di Marguerite Duras, che arrivava a scolarsi sei litri di vino al giorno. “Sono completamente astemio perché non bevo niente tra un drink e l’altro”, diceva Francis Scott Fitzgerald. 


John Cheever, Premio Pulitzer, scrisse sull’alcool alcuni dei suoi racconti più famosi, prima di diventare astemio con una cura disintossicante seguita a un tentativo di suicidio. Ma compensò con il fumo, e morì di cancro ai polmoni. Da ubriaco uccise la moglie William S. Burroughs, sparandole con una pistola su un bicchiere di cognac posato sulla testa di lei a mo’ di Gugliemo Tell: senza conseguenze penali, perché era ubriaca anche lei, e a lei era venuta l’idea. A sua volta ubriaco, alla testa della moglie aveva cercato di dare fuoco Paul Verlaine, come aveva sparato a una mano all’amico-amante Rimbaud. Come l’altro “poeta maledetto” Charles Baudelaire, erano tutti dediti all’assenzio, anche se poi l’autore dei “Fiori del male” lo affiancava a oppio e hashish. “Qual è la differenza tra un bicchiere di assenzio e il tramonto?”, chiedeva Oscar Wilde. 


Baudelaire fu comunque quello che introdusse in Europa Edgar Allan Poe, i personaggi del quale sono spesso tormentati da alcol e droghe. Da quello che dopo aver ucciso la moglie ne chiude il cadavere in un muro in cui sarà rivelato dal miagolio del felino in “Il gatto nero”, a quello che si fa murare vivo lui in “Il barile di Amontillado”: Roger Corman fonderà le due storie in un episodio del suo film “Racconti del terrore”, dove si vedono pure i due protagonisti Vincent Price e Peter Lorre duellare in una gara di degustazione. Quasi come il personaggio di un suo racconto morì peraltro lo stesso Poe, dopo essere stato trovato il 3 ottobre 1849 delirante per le strade di Baltimora, “in grande difficoltà, e (…) bisognoso di immediata assistenza”, secondo l’uomo che lo trovò, che si chiamava Joseph W. Walker. Fu portato all’ospedale Washington College, dove morì domenica 7 ottobre 1849, alle cinque del mattino. Lo scrittore non rimase mai sufficientemente lucido per spiegare come si fosse trovato in tali gravi condizioni, né come mai indossasse vestiti che non erano i propri. Tra tante teorie, una suggerisce che fosse stato ubriacato da un particolare tipo di autori di brogli elettorali che nella sommaria democrazia dell’epoca portavano così le loro vittime a votare a ripetizione, facendole spergiurare che fosse la prima volta.  


Poe è comunque segnalato da Janín tra i suoi preferiti “illustri”, forse perché a sua volta inventava cocktail. Il suo preferito era con sette uova, latte zuccherato, brandy, panna e noce moscata. Tra i preferiti anche il “divertente” autore francese Alfred Jarry. Di lui e di Poe, Janín afferma che “non sono ubriachi di vizio ma artisti dell’ubriachezza”, oltre al pittore francese Toulouse-Lautrec, di cui ricorda l’aver addirittura concepito “spettacoli da ubriachi”. “Ci sono molti che hanno fatto dell’ubriachezza un’opera d’arte; ad esempio, Malcolm Lowry ha fatto sì che tutto il suo lavoro ruotasse attorno all’alcol, si potrebbe dire che le sue pagine distillano alcol; la sua vita era bere e bere, e il suo lavoro sembra alcol puro”, sottolinea l’autore ricordando la tremenda fine di altri artisti come lo scrittore francese Guy de Maupassant, che finì i suoi giorni chiuso in una cella, assediato dalla follia, vittima di alcol e sifilide. Particolarmente dipendente era anche Truman Capote, dal momento che beveva mentre scriveva. Nel pomeriggio iniziava con una tazza di caffè o tè, la sera lo si vedeva con un bicchiere di martini, e “A sangue freddo” ammise di averlo completato al ritmo di tre o quattro martini al giorno. “Sono un alcolizzato, un tossicodipendente, una puttana e un genio”, diceva di sé. A un certo punto si vociferava che la sua morte fosse stata causata dalla dipendenza, sia dall’alcol che da altre sostanze tossiche. Ufficialmente, fu ucciso da cancro al fegato all’età di 59 anni.


Altri autori che, come l’inglese Anthony Burgess, non cedettero al vizio, sono tuttavia recensiti per la qualità alcolica che riuscivano a imprimere nei loro personaggi. Attenzione: anche in Italia abbiamo avuto un Francesco Redi che nel suo “Bacco in Toscana”, anno 1685, copriva di improperi ogni tipo di bevanda diversa dal vino. “Beverei prima il veleno / Che un bicchier, che fosse pieno / Dell’amaro e reo caffè”. “Chi la squallida Cervogia /  Alle labbra sue congiugne / Presto muore, o rado giugne / All’età vecchia e barbogia”. “Beva il sidro d’Inghilterra / Chi vuol gir presto sotterra; / Chi vuol gir presto alla morte / Le bevande usi del Norte. / Fanno i pazzi beveroni / Quei Norvegi e quei Lapponi; / Quei Lapponi son pur tangheri, / Son pur sozzi nel loro bere; / Solamente nel vedere, Mi fariano uscir de’ gangheri”. “Non sia già che il cioccolatte / V’adoprassi, ovvero il tè, / Medicine così fatte / Non saran giammai per me”. “Chi l’acqua beve, / Mai non riceve / Grazie da me”. Solo che poi, quando approfondiamo la sua biografia, scopriamo che il grande elogiatore letterario del vino, “dell’uve il sangue amabile”, in realtà nella vita di tutti i giorni era invece un astemio impenitente e convinto. Tant’è che il suo poema successivo descrive invece “Arianna Inferma” per le troppe ciucche che il divino sposo le ha fatto prendere, e che si cura appunto con l’acqua.
Insomma, ci sono alcolisti che fingono di essere sobri, ma anche il contrario. Come ha spiegato Janín in una intervista, “ci sono molti bevitori, sia nel mio dizionario che nella realtà, che non soffrono affatto di questa malattia e che amano bere come qualsiasi altro piacere”. “Ubriaconi ce ne sono tantissimi e ci sono sempre stati. Ma devono essere colti, e ancor più che colti, figure di cultura, affinché ce ne ricordiamo, le teniamo in considerazione e possano apparire in libri come questo mio, che se li chiama ‘Eccellentissimi’ non è per la loro eccellenza nell’arte del bere, ma in altri ambiti artistici, letterari, storici o di altro tipo”. “Non c’è dubbio che qui, come in tanti altri campi, c’è un certo classismo latente e che un grande scrittore che beve un po’ più del dovuto è visto con molto maggiore compiacimento rispetto a un operaio edile che fa esattamente la stessa cosa”. Insomma, “il prestigio sociale ottenuto dalla fama in qualche campo esenta dalla colpa. Tra i bevitori illustri ci sono musicisti e pittori, ma la letteratura è un campo privilegiato perché può e cattura, con tratti drammatici, umoristici o fantastici, i rapporti tra l’autore e il suo hobby, il suo vizio o la sua dipendenza”.
Insomma, “nella vigna del Signore c’è tutto, dipende dall’esperienza di ciascuno. Ma è anche vero che esistono molte mode, pose e leggende a priori favorevoli alla percezione positiva dell’alcol. Può essere un’esigenza sociale, una forma di snobismo, quasi un attributo dell’artista”. Però, ricorda sempre il libro, “tra gli astemi aspri e intolleranti, i critici aspri dell’alcol e dei loro seguaci, spiccano Nietzsche e Céline”. Due personaggi che la sobrietà non ha certo spinto verso l’amabilità: ma d’altra parte anche Mussolini e Hitler erano astemi. “Quanto è contraddittorio il mio amico Nietzsche, così dionisiaco e così sobrio!”, osserva Janín. Ma “di follia ce n’è stata tanta nella letteratura, a cominciare da lui e proseguendo con Hölderlin, Nerval, Robert Walser e tanti altri, che, senza bisogno di ubriacarsi con l’alcol, avevano già altre vie di fuga per accedere a zone inesplorate ed esperienze di estasi”. Il saggio del poeta Adam Zagajewski “In difesa del fervore”, è presentato come esempio di questa aspirazione. “Il misticismo e le droghe possono portare a esperienze molto simili. La differenza è che il primo è meno dannoso per la salute ed è meno costoso”. Agostino nelle “Confessioni” rivela come da ragazza sua madre beveva talmente tanto, che un giorno un servo la definì “bottiglietta sporca di vino puro”. Scioccata, lei smise, e fu decisiva per far diventare il figlio santo, con la conseguenza accessoria di salire agli altari anche lei: Santa Monica. La leggenda di una santa bevitrice…

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