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una riserva di senso

Etichetta Tolkien. "Roba da fasci? “Io non predico nulla”, diceva lo scrittore. Del buon uso di un'epica condivisa

Edoardo Rialti

La storia dell’eco e del dibattito sull'autore del Signore degli Anelli è la cartina di tornasole dei problemi fronteggiati dalla cultura contemporanea rispetto alla possibilità di creare un nuovo immaginario comune e delle sue implicazioni

"Io non predico e non insegno nulla”. J. R. R. Tolkien lo ribadì ancora e ancora, dopo l’uscita del Signore degli Anelli, man mano che le interpretazioni montavano e cercavano di inchiodare il testo e il suo successo. L’anello è la Bomba H? Mordor è la Germania di Hitler, anzi no, la Russia di Stalin? Questo mentre il romanzo dilagava e veniva salutato con entusiasmo tanto dall’antifranchista e omosessuale Auden che dal C. S. Lewis cristiano e conservatore. La storia dell’eco e del dibattito su Tolkien è la cartina di tornasole dei problemi fronteggiati dalla cultura contemporanea rispetto alla possibilità di creare una nuova epica condivisa e delle sue implicazioni.

Alla vigilia dell’inaugurazione della mostra promossa dal ministero della Cultura e inaugurata da Giorgia Meloni – che ha sempre dichiarato Tolkien un suo riferimento essenziale – nella madrepatria del professore di Oxford il Guardian si è chiesto “cosa sta cercando di ottenere questo governo imprimendo il proprio marchio in modo così aggressivo su una delle saghe fantasy più amate al mondo?”.

Di colpo, anche per via di articoli sulle principali testate che cantano vittoria (a destra)  come per un assedio spezzato, sventolando finalmente una bandiera culturale che non è retaggio di gruppetti nostalgici ma un immenso mare condiviso, o (a sinistra) brancolano nel buio, ignorando decenni di approfondimento culturale e pubblicazioni, tirando in ballo confuse accozzaglie su medievismo, cosplayer palestrati e croci celtiche, pare di essere tornati a vent’anni e più addietro: “Leggi Tolkien? Ma quello è roba da fasci”. In realtà la risposta al quotidiano britannico va cercata in opposte direzioni.

Da una parte, la destra italiana del governo Meloni capitalizza uno specifico fiume carsico che adesso costituisce un immenso tesoro potenziale. Il tentativo di riconnettersi a una storia che può infondere nuova energia e coesione identitaria al presente. La corrente minoritaria dei “Campi Hobbit” che cercava in una fusione di esoterismo, tradizionalismo europeo, localismo e anticapitalismo, di contestare la posizione maggioritaria del proprio apparato, è stata assorbita da tempo nel traghettamento in chiave atlantista e neocon. Nel frattempo, la sinistra culturale e partitica che aveva guardato con miope diffidenza e ignoranza alla complessa operazione tolkieniana, snobbata come escapista e reazionaria, pare aver sposato il realismo capitalista come unico valzer ballabile. 

 

“Quand’ero piccolo mi piacevano i maghi, adesso invece mi piace Draghi. Alle magie e alle favole non ci credo più, al mio futuro pensaci tu”. E’ un post di Elena Boschi con un cartellone impugnato da un bambino. Nel frattempo il fantasy di Tolkien è diventato sempre più uno degli alfabeti immaginativi di riferimento del mondo intero. Una riserva di senso troppo succulenta per lasciarsela scappare. Meloni ha voluto-saputo impugnarlo mentre dall’altra parte fin troppe voci paiono occupate a fare le pulci al sessismo di Omero per interrogarsi su cosa voglia dire appellarsi a una narrazione commovente per mettere in discussione il presente. Alla domanda sul perché dell’iniziativa il ministro Sangiuliano ha evocato “simboli universali e senza tempo, valori che ci sussurrano dentro… sono valori potenti: amicizia, comunità, coraggio e solidarietà” che al tempo stesso costituisce una versione in salsa bugiardino della celebre lettura iniziatica di Elémire Zolla ma, quel che più conta, l’ennesima riduzione di un capolavoro letterario a manuale d’istruzioni da contrapporre quale brand alle insidie della modernità secolarizzata, come quando definì Dante “padre” della destra. Fu proprio l’Alighieri a scrivere che il quarto grado di ogni testo è “anagogico”, istituisce un nesso tra due realtà parimenti esistenti, su piani diversi, e Tolkien gli farà eco a suo modo quando dichiarerà di disprezzare l’allegoria, la riduzione di un’opera a un cruciverba ideologico, e preferire l’applicabilità, che sta solo nella libertà del lettore.

Una libertà troppo vasta in qualità e quantità, che comprende teologi cattolici, filosofi, manifestanti per il clima, adolescenti genderfluid, per essere incasellata come proprietà di qualcuno, e suscita più domande che facili risposte. Sono i testi a giudicare noi e non viceversa. “Non predico e non insegno nulla”.
 

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