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Il padre incompiuto di Tolkien

Edoardo Rialti

Gli scritti per la prima volta pubblicati in Italia anticipano “La strada” di McCarthy. Viaggi nel tempo e nelle tradizioni

Nel mezzo di una strage, un vecchio ormai stanco vorrebbe solo lasciarsi morire con gli altri cittadini colti di sorpresa. È bene che i giovani fuggano, ma lui no, non ce la fa più. Eppure una fiamma soprannaturale si accende sui capelli del nipote bambino e allora l’anziano leva le mani al cielo. “Dacci ancora un segno, o padre e conferma gli auspici.” Segue un tuono e il vecchio cede: “Vi seguo. Dei patrii salvate la stirpe, salvate il nipote. Troia sopravvive nel vostro volere.” Il II Libro dell’Eneide l’ha raccontato una volta per tutte. In fondo non è Enea a salvare il padre Anchise e il figlio Julo ma quest’ultimo, inerme, a spingere e traghettare entrambi gli adulti di là dalla soglia del passato e della morte, costringendoli a non essere solo gli spettri di Troia ma i semi di Roma nel futuro. La tradizione – nella sua originale accezione di trasporto, consegna, movimento nello spazio, è un patto tacito, il rischio di un lascito e l’inquieto coinvolgere qualcun altro che quel medesimo rischio si assuma. E in questo scambio può essere il futuro a proteggere in anticipo il passato. Millenni dopo farà eco La Strada di McCarthy. Da cosa riparte un mondo distrutto? Da un padre e figlio che spingono un carrello assieme – ciò cui si sono ridotti i Penati della patria – accendono dei bivacchi, si raccontano storie, portano il fuoco

La ricorrenza del “Tolkien Year”, a cinquant’anni dalla scomparsa del creatore della Terra di Mezzo, è l’occasione per pubblicazioni, eventi, mostre, e strascichi dell’ammuffito dibattito italiano su “a chi appartenga”, parzialmente riscosso dalla predilezione mai nascosta di Giorgia Meloni per il professore di Oxford e lo scontro sull’egemonia culturale. La piccineria asfittica copre come può un problema assai più vasto e radicale, la fame nella società capitalistica e secolare, poggiata unicamente su sé stessa, per storie e orizzonti comuni, un terreno solido su cui poggiare i piedi per camminare nel mondo. Pure le celebrazioni tolkieniane additano un rischio: non è significativo e inquietante che si continui a guardare a storie che sono state realizzate oltre mezzo secolo fa? Dal Signore degli Anelli alle perpetue espansioni di Star Wars allo stesso Game of Thrones di Martin che fu comunque concepito negli anni 90. L’ultimo grande racconto collettivo resta Harry Potter, che a sua volta festeggia il suo ventennio e più di uscita. Nell’assenza di nuove epiche comuni, il ricorso e la variazione delle storie già note ed amate contiene una valenza ambigua: tutti i limiti della nostalgia, che può declinarsi nella mummificazione retorica o nello svilimento commerciale, ma anche l’antica “tradizione” – appunto – di rinarrare il mito, ancora e ancora, come Ovidio o Shakespeare, per la sua inestinguibile riserva di senso. È un nodo che contiene ed esprime la domanda fondamentale su cosa voglia dire effettivamente fare e trasmettere cultura

In tutto questo, l’uscita per Bompiani di una serie di lavori incompiuti di Tolkien, La Strada Perduta e altri scritti, consente di scorgere dall’interno della stessa scrittura tolkieniana, dal cantiere del suo immaginario, quanto egli per primo fosse consapevole di tutto questo, e come abbia cercato di esprimerlo attraverso la sua narrativa, nella quale si riversava a sua volta una dinamica emotiva della sua stessa biografia, del suo passato e del suo futuro, del padre che non aveva conosciuto e del figlio che aveva amato. “Sono contrario alla tendenza attuale della critica, con il suo eccessivo interesse per i dettagli delle vite degli autori e degli artisti. Solo l’angelo custode di ognuno di noi, oppure Dio stesso, è in grado di svelare la vera relazione che c’è tra i fatti personali e le opere di un autore”, dichiarerà in una lettera. Tuttavia non occorre essere freudiani della vecchia scuola per riflettere sul grande vuoto rappresentato dalla morte di suo padre Arthur quando John era ancora bambino, una morte distanziata dall’oceano stesso, tra Inghilterra e Africa. “Carissimo papà, sono così felice di tornare indietro e rivederti dopo tanto tempo da quando siamo venuti via e spero che la nave ci porti tutti da te”, detterà il piccolo Tolkien alla balia. Seguirà un telegramma con la morte di Arthur. Decenni dopo Il Signore degli Anelli si chiuderà appunto con un finale arturiano, una nave che salpa come quella che trasporta il re morente nel reame beato di Avalon. “Non ridere! Una volta avevo in mente di creare un corpo di leggende più o meno legate, che spaziasse dalla cosmogonia, più ampia, fino alla fiaba romantica, più terrena, che traeva il suo splendore dallo sfondo più vasto – da dedicare semplicemente all’Inghilterra, alla mia terra… Naturalmente c’era ed esiste tuttora il ciclo arturiano, ma pur nella sua potenza, è solo imperfettamente naturalizzato”. 

Il padre, il mare, re Artù.  “C’è troppo poco di quello che ci piace davvero nelle storie, temo che dovremmo scriverle noi”, constatò l’amico C. S. Lewis, e uno dei primi tentativi condivisi fu un progetto a due: “Abbiamo tirato a sorte”, raccontò poi Tolkien, “e lui avrebbe dovuto scrivere sul viaggio nello spazio e io sul viaggio nel tempo, cominciai un libro abortito di viaggi nel tempo che doveva finire con la presenza del mio eroe all’inabissamento di Atlantide. Si sarebbe dovuta chiamare Númenor, la Terra dell’Ovest. Il filo conduttore sarebbe stato il ripresentarsi di volta in volta in famiglie umane di un padre e un figlio… Iniziava con un’affinità̀ padre-figlio fra Edwin ed Elwin nel presente, e sarebbe dovuta andare all’indietro fino ai tempi leggendari passando per Eädwine e Ælfwine circa nel 918 d.C., per Audoin e Alboin nelle leggende longobarde, e poi per le tradizioni del Mare del Nord riguardo l’arrivo del grano e degli eroi culturali, antenati delle stirpi dei re, con barche (e le loro partenze in barche funerarie). Uno di questi, un certo Sheaf o Shield Sheafing, può in effetti essere identificato come uno dei remoti antenati della nostra attuale Regina. Nel mio racconto saremmo alla fine arrivati ad Amandil ed Elendil, capi del partito dei fedeli a Númenor quando questa cadde sotto il dominio di Sauron”. Ecco l’origine de La Strada Perduta, una metanarrazione e cerca filologica sul rapporto tra i secoli, la storia patria e la sua radice nelle leggende, la memoria che si sbiadisce e un tenue filo che permane, dove il leitmotiv della ribellione umana contro la morte e il limite nelle scappatoie della Macchina –  “con quest’ultima intendo ogni uso di piani o espedienti (attrezzi) esterni al posto dell’uso delle proprie forze o dei propri talenti innati; o anche l’uso di quei talenti con l’intento corrotto di dominare: demolendo il mondo reale, o forzando altre volontà. La Macchina è la nostra forma moderna più̀ ovvia, anche se più strettamente collegata alla Magia di quanto sia solitamente ammesso” – doveva essere scandito da una staffetta di rapporti intragenerazionali, padri e figli come in Turgenev, dai nomi diversi e in fondo sempre uguali e in cui il vuoto di Arthur aveva investito di significato particolare il rapporto di profonda predilezione e confidenza che Tolkien viveva col figlio Christopher. Questi leggeva capitoli e bozze in anticipo, disegnava le mappe dei luoghi immaginati dal padre, ne leggeva gli estratti alle riunioni del gruppo degli “Inklings” che preferivano di gran lunga la sua dizione al flusso a macchinetta del genitore. Militare in aviazione durante la Seconda Guerra Mondiale, riceveva lettere con immagini e pensieri che poi sarebbero confluiti nel Signore degli Anelli stesso: “Un abbraccio forte: ti penso e prego per te. Quanto vorrei sapere! Quando tornerai nelle terre dei vivi ci metteremo a sedere accanto a un muro assolato raccontando le avventure vissute, ridendo delle antiche pene: allora mi spiegherai ogni cosa (Faramir a Frodo).” 

I capitoli realizzati del romanzo incompiuto si tendono le braccia in mezzo a un grande abisso, apparentemente incolmabile, il castigo che Dio ha inflitto a una antica civiltà insuperbita, trasformando il mondo del tempo e dello spazio in una sfera senza sfondamento nell’eternità: “E il mondo fu sminuito, giacché Valinor ed Eressëa furono portate nel regno delle cose nascoste. E da allora in poi, per quanto un uomo navigasse, non avrebbe mai potuto raggiungere di nuovo il Vero Occidente, ma infine esausto sarebbe tornato al luogo del principio; giacché tutte le terre e i mari erano parimenti distanti dal centro della terra e tutte le strade erano curve”. Nel più remoto passato, uno dei pochi “fedeli”, come Noè, coglie i segni della catastrofe imminente, e, sulla riva del mare, ne discute col figlio inquieto, che vorrebbe prendere parte alla grande ribellione istigata dalle menzogne del diabolico Sauron. Il salto quantico che questi concede alla loro civiltà, bacandola dall’interno, sintetizzava per Tolkien tutto ciò che aborriva della società moderna: “Da principio egli rivelò solo i segreti dell’arte e insegnò a foggiare molte cose potenti e meravigliose; ed esse parvero buone. Le nostre navi adesso procedono senza brezza, e molte sono fatte di un metallo che fende gli scogli nascosti, e non affondano né per bonaccia né per tempesta; eppure non sono più belle a vedersi. Le nostre torri diventano sempre più forti e si levano sempre più in alto, ma hanno deposto ogni grazia ai loro piedi. Noi, che non abbiamo nemici, siamo circondati da fortezze inespugnabili, soprattutto a Occidente. Le nostre armi si moltiplicano come per una guerra infinita, e gli uomini smettono di dedicare amore e cura alla fabbricazione di altre cose per utilità o diletto. Ma i nostri scudi sono impenetrabili, le nostre spade non conoscono rivali, i nostri dardi sono come tuono e sfrecciano per leghe senza mai mancare il colpo. Ove sono però i nostri nemici? Abbiamo preso ad assassinarci a vicenda”. 

C’è spazio per una duplice stoccata. Da una parte “le vecchie canzoni sono dimenticate o snaturate, stravolte in altri significati”, la cecità contemporanea che ci recide dal passato, ma è altrettanto vero che il male e i suoi accoliti si appellano proprio a una falsa immagine della tradizione stessa: “Dicono che dovremmo ripudiare l’Eressëano e far rivivere la lingua ancestrale degli Uomini. A insegnarla è Sauron” dichiara il figlio, per sentirsi spiegare dal padre guerriero –  e filologo ante-litteram – come queste mitologie su primati e identità nazionali nascondano a loro volta il perpetuo debito che ogni cultura deve a qualcosa di più grande: “Sauron ci inganna doppiamente. Perché gli Uomini hanno appreso il linguaggio dai Primogeniti, quindi se dovessimo davvero tornare alle origini non troveremmo i dialetti sconnessi degli uomini selvaggi, né la semplice parlata dei nostri padri, ma una lingua dei Primogeniti stessi”. 

Da questa parte del mare, invece, quell’antico rapporto riecheggia nella vita ordinaria di un filologo e suo figlio, a loro volta in vacanza sul litorale. Il professore è stato tutta la vita braccata da misteriosi sogni linguistici. “Il punto veritiero era il sentimento che i Sogni recavano sempre più̀ insistentemente, e che prendeva forza alleandosi con le ordinarie occupazioni professionali del suo pensiero. Ripercorrendo gli ultimi trent’anni, sentiva di poter affermare che il suo stato d’animo più permanente, sebbene spesso sovrapposto ad altro o soppresso, era stato il desiderio fin da bambino di tornare indietro. Per camminare nel Tempo, forse, come gli uomini camminano su lunghe strade; o per o una montagna, o la terra come una mappa vivente ai piedi di un dirigibile. Ma comunque fosse vedere con gli occhi e udire con le orecchie: vedere il dispiegarsi di terre antiche e persino dimenticate, osservare gli uomini antichi camminare e udire le loro lingue per come effettivamente le parlavano, nei giorni prima dei giorni, quando linguaggi di stirpi dimenticate si udivano in regni da tempo caduti sulle rive dell’Atlantico”. E’ uno degli autoritratti più espliciti di Tolkien stesso. Egli ascolta, mentre il figlio a sua volta vede immagini senza suono, e i due si confidano, cauti. Finché il padre stesso viene raggiunto nel sogno dal vecchio eroe del passato ancestrale, prima del Disastro, che gli offre di poter effettivamente viaggiare nel tempo. “È contro la legge”, obietta il professore. “È contro la regola” gli viene risposto. “Le leggi sono ordini imposti alla volontà e sono vincolanti. Le eccezioni esistono, giacché esiste ciò che domina ed è al di sopra delle regole. Ecco, è dalle crepe nel muro che passa la luce, e grazie a queste gli uomini si accorgono della luce stessa e percepiscono il muro e come si erge. Il velo è tessuto e ogni filo segue un percorso stabilito, tracciando una trama; tuttavia il tessuto non è impenetrabile, altrimenti la trama non sarebbe mai indovinata; e se la trama non fosse indovinata, neppure il velo sarebbe percepito e tutti vivrebbero nelle tenebre”. Questo è il dono misterioso, accordato all’immaginazione e alla memoria che ad essa è intessuta. Immaginare è ricordare, e viceversa. Tuttavia c’è un prezzo. “Se decidi di tornare indietro, con te dovrai portare Herendil, ossia nell’altra favella Audoin, tuo figlio, giacché tu sei le orecchie ed egli gli occhi”. Come John e Christopher stessi, chi creava le storie e chi le disegnava, chi le scriveva e chi le leggeva. 

Scoprire che qualcuno è in grado di accogliere quanto noi per primi avvertiamo come decisivo, storie e immagini e sogni che occupano il nostro spirito, è un conforto, e una terribile inquietudine. Cosa succede a chi coinvolgiamo nell’esistenza, anche nell’esistenza secondaria della narrativa? Il vecchio professore se lo chiede, e Tolkien con lui: “Non sono preoccupato per me. Ma per Audoin. Ma il pericolo è forse più grande di quello creato dalla paternità stessa? È pericoloso venire al mondo in qualsiasi momento del Tempo. Eppure, io avverto maggiore l’ombra di questo particolare pericolo. Perché? Perché è un’eccezione alle regole? O forse sto vivendo una scelta anteriore: il pericolo della paternità ripetuto?” Ogni storia consegnata è una nuova generazione. “Essere padre due volte della stessa persona dà da pensare. Forse sto già tornando indietro. Non lo so. Mi chiedo. La paternità è una scelta, tuttavia non è interamente frutto della volontà di un uomo. Forse questo pericolo è una mia scelta, ma va anche al di là della mia volontà. Non lo so. Si sta facendo molto buio”. Secoli prima, lontano da quel salotto, la stessa oscurità si addensava nel cuore di Elendil, e la sua proposta condensa la tensione che si annida in ogni autentica paternità e figliolanza: “Io sono un condottiero, figlio mio. E ho messo in conto il pericolo sia per me che per te e per tutti coloro che amo. Devi scegliere tra tuo padre e Sauron. Ma ti lascio libertà di scelta e non ti impongo l’obbedienza filiale, se non ho convinto la tua mente e il tuo cuore. Desideri restare?”. “Atarinya tye-meláne,” disse Herendil all’improvviso, e stringendo le ginocchia del padre vi pose la testa e pianse. ‘Resterò, padre’”. Nell’incertezza del “Non lo so”, aggrappati solo all’amore e alla dedizione, per qualcuno che ci ha amati a sua volta, e col quale si condivide un sogno più o meno chiaro. È lo smascheramento d’ogni retorica sulla tradizione stessa, sulla sua natura intima e sul suo compito

La notazione più bella e commovente però resta quasi un inciso, un pensiero fuggevole, alcune pagine prima, del professore. Quei sogni visivi e uditivi paiono importanti, certo, “ma in ogni caso non ci si poteva fare nulla: né pubblicarli o cose simili”.  È esattamente l’opposto di ciò che avrebbe fatto Tolkien stesso, e di ciò cui si sarebbe consacrato Christopher per tutta una vita di curatela alla morte del padre. Herendil-Audoin-Christopher è rimasto. A lui si sono aggiunti molti altri.

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