Natalie Zemon Davis - foto LaPresse

obituary

Anticonformista e libera. Un ritratto della grande storica Natalie Zemon Davis

Lucetta Scaraffia

La studiosa morta a 94 anni si è occupata di donne e femminismo per tutta la sua vita. Con il suo lavoro ha rivoluzionato il modo di scrivere la storia e il metodo storico

Alla fine degli anni Ottanta noi giovani storiche, volevamo essere tutte come Natalie Zemon Davis, la studiosa statunitense morta qualche giorno fa a 94 anni. Ci piacevano la sua aria vivace, gli occhi intelligenti, i capelli corti e l’eleganza anticonformista, cioè la sua aria nuova, anche se aveva l’età delle nostre madri. Ma soprattutto ci piaceva come aveva rivoluzionato il metodo storico e il modo di scrivere la storia partendo dalla sua condizione di donna e di ebrea. Un esempio vivente e creativo di quella proposta femminista di partire dal privato.

Sì, Natalie aveva accolto in pieno la richiesta del femminismo di aprire la ricerca storica alle donne, facendone l’oggetto prevalente dei suoi studi sulla storia dell’età moderna europea. Fino ad allora  la storia delle donne significava di fatto una aggiunta polemica alla storia degli uomini, una continua protesta per dimostrare che anche le donne avevano contato qualcosa. Oppure, per recuperare la storia di minoranze perseguitate, come le streghe,  vittime innocenti del patriarcato.

Zemon Davis sposta il punto di vista, pone domande diverse. Ad esempio: nel grande sommovimento provocato dalla Riforma protestante e dalla risposta della Chiesa cattolica le donne avevano guadagnato spazi e libertà maggiori fra i riformati o fra i cattolici? La sua risposta nel bellissimo "Le culture del popolo", rovescia un’opinione diffusa: se nei primi tempi il mondo protestante sembra aprirsi al protagonismo femminile, si assiste in breve  a una chiusura patriarcale netta, anche in risposta all’accusa dei cattolici che i riformati fossero finiti in mano alle disprezzate donne. Mentre nelle società cattoliche la persistenza della vita religiosa femminile, che consente spazi di libertà, di studio e spesso anche di parola, permette che una forma di protagonismo femminile – le sante e le badesse – non venga mai meno. Zemon Davis sottolinea poi il rifiuto di molte donne di classe popolare a passare alle confessioni riformate per non perdere una risorsa che sentivano come fondamentale: la Madonna.

La riflessione sul rapporto fra donne e religioni ritorna nel volume Donne ai margini, in cui si ricostruisce la vita di tre donne molto del XVII secolo, una cattolica, una protestante e una ebrea. A confermare che in tutti i contesti la repressione religiosa lasciava comunque dei margini per uscire dai modelli comandati e percorrere strade nuove. Il tema del rapporto fra le donne e le religioni è anche alla base della sua collaborazione alla Storia delle donne diretta da Georges Duby e Michelle Perrot – che tanta importanza ha avuto nella cultura europea.

La lettura delle fonti, la passione per il materiale che trova negli archivi le hanno ispirato storie romanzesche e appassionanti, la più nota delle quali è Il ritorno di Martin Guerre, tradotto in 20 lingue, da cui è stato tratto un film di successo. Al centro – siamo sempre in quel Cinquecento che Natalie conosce così bene, dilaniato dalle guerre di religione, in cui passare da una confessione a un’altra significava spesso anche lasciare una famiglia e fondarne una nuova – una storia giudiziaria: un uomo, Martin, che viveva in un paese al confine fra Spagna e Francia, dopo anni di matrimonio difficile segnati da impotenza, parte per la guerra. Otto anni dopo si presenta un ex soldato che dice di essere proprio Martin, conosce persone e luoghi, episodi del passato e così convince la famiglia, e soprattutto la moglie abbandonata, felice di avere finalmente un uomo accanto, ad accettarlo come vero. Dopo alcune tensioni familiari, che mettono in dubbio la sua identità – ma intanto sono nati tre figli – si apre un processo, durante il quale, zoppicando con una gamba di legno, si presenta un uomo che dice di essere il vero Martin. È un magistrale lavoro di riflessione sull’identità, la memoria, il desiderio di una donna che preferisce il falso Martin e lo difende, e il coro di una società contadina che circonda la famiglia svolgendo una parte di primo piano nella vicenda.

La sua attenzione verso figure complesse, che appartengono a mondi diversi, si cimenta anche con la vicenda di Leone l’Africano, uomo dalla doppia vita, e ultimamente con la biografia di un ebreo che si destreggia fra tre lingue e tre identità. Dai suoi scritti si capisce che la ricerca storica per lei è passione per gli esseri umani e per il loro destino, come confessa in un discorso pronunciato nel 1980: “Io voglio dimostrare che anche quando i tempi sono difficili, gli uomini e le donne hanno trovato i modi di affrontare quello che succede e forse di resistere. Io voglio che gli uomini e le donne di oggi possano stabilire un legame con il passato considerando le tragedie e le sofferenze, le crudeltà e gli odi, ma anche le speranze, l’amore e la bellezza delle persone scomparse. (…) Io sono interessata alle cadute e alle fratture che lacerano le società e che obbligano a cambiare le cose, io voglio essere una storica della speranza”.

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