la recensione

"Fuga al Nord" di Klaus Mann è un romanzo dell'incredulità

Elisa Veronica Zucchi

Una "fiaba d’amore nordica", così la definiva l’autore, quando nel 1934  - mentre Hitler si autoproclamava Führer - inizia a scrivere la sua opera

Di fronte all’abuso di potere, le false coscienze sfavillano con riflessi opachi, mentre l’incredulità è impotente e scolorisce le sgargianze, che, chiamate alla parata delle feste, ingrigiscono di fronte a quei particolari momenti in cui si svela, come un orlo che si sfalda all’improvviso, la posta in gioco sottaciuta. È il 1934 quando Klaus Mann, secondogenito di Thomas Mann e anch’egli scrittore notevole, antifascista, incomincia a vergare il romanzo Fuga al Nord (Flucht in den Norden, Castelvecchi, 2023, editore presso cui è in corso di pubblicazione l’intera sua opera). È l’anno in cui Hitler, dopo essere stato eletto presidente della Germania, si autoproclama Führer del Reich e del popolo tedesco. 

Come l’autore dei Buddenbrook, Klaus Mann è in esilio volontario, tragicamente consapevole della minaccia incombente. Ricordando quando, ginnasiale, accostava in un’annotazione sul diario il mago Uferino alla Rivoluzione di novembre, è incredulo. La sovrapposizione, constatata in Figlio di questo tempo (Castelvecchi, 2022), non è quindi una modalità del pensiero peculiare dei più piccoli. Sembrerebbe, invece, una forma sostanziale della coscienza, che, attraverso l’interferenza, propriamente si manifesta e parla a ognuno. Si potrebbe ribattezzare questo movimento, dondolante fra lucida visione e oblio, come “dialettica della redenzione”. L’oblio parrebbe essere una maniera di ricordare più originaria. Dietro il paravento del mondo infante, ludico, esso fa cenni, affabula, gratta sulla superficie come un monito ancestrale e, al contempo, si presta al gioco, creando paesaggi fantastici. Fuga al nord è definito dallo stesso autore, nell’autobiografia La svolta (il Saggiatore, 2016), una “fiaba d’amore nordica”. Ispirato al viaggio che Klaus Mann fece nel 1932 in Finlandia, su invito dell’aristocratico Hans Aminoff, a Pekkala, e al contestuale giro in auto fino in Norvegia, attraverso “scenari fatati”, è un romanzo dell’incredulità. La protagonista Johanna, il cui personaggio deve alcune caratteristiche all’amica svizzera Annemarie Schwarzenbach, e l’amato Ragnar, figura ispirata a Hans, cercano la fuga dal pensiero e, quindi, dal ricordo, nel loro amore, sospingendosi  in terre novalisiane, lontane e notturne come il sogno, in una disperata corsa in auto che, in certi momenti e sempre con maggiore intensità, assurgerebbe a esperienza mistica, se non fosse per gli squarci di consapevolezza che frantumano – con violenza pari a quella di una realtà divenuta insostenibile – quell’altra realtà, quella dell’incanto e del desiderio. In quel paese, afferma Ragnar, ebbro, “la redenzione stessa diventa kitsch – tutto diviene kitsch”. 

La seconda realtà deve sottomettersi alla prima, perché l’orrore dei campi di concentramento non può lasciare indifferenti, deve coinvolgere, rendere desti. Stridore nell’eternità, i criminali nazisti, figli della stupidità e della vigliaccheria, annientano un intero popolo incredulo. Mephisto (Garzanti, 2021), romanzo ispirato alla carriera dell’attore di regime Gustaf Gründgrens (ex marito della sorella Erika), inizia con una festa, il gran ballo per il quarantatreesimo compleanno del presidente dei ministri del Reich, durante la quale viene messa in palio, come premio per la tombola di beneficenza, una croce uncinata di brillanti. I premi di consolazione sono carri armati e mitragliatrici di marzapane. Da subito capiamo che qui il mondo dell’infanzia è perduto, e che l’incredulità non può più giocare. Rimangono le mani, con le unghie ancora laccate di rosso, di Anna-Yvonne, e le sue lacrime disilluse nella toccante scena d’addio da Johanna. Restano i due amanti, e le loro fughe. 

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