Storia del Sud Africa

Nelson Mandela in Love: i nuovi documenti

Annamaria Guadagni

Nelson e Winnie, la potente immagine di una coppia e della storia d'amore dell'ex presidente del Sud Africa, morto nel 2013: la usarono per costruire la libertà dall’apartheid

In un pomeriggio estivo del 1957, un famoso avvocato sudafricano – il migliore su una piazza che sarebbe un eufemismo dire difficile – stava dando uno strappo con la sua auto a uno studente di medicina, fra la centrale di Orlando West e Johannesburg. Fu allora che notò una ragazza in attesa dell’autobus e gli sembrò talmente bella che fece un’inversione per tornare indietro. Questa è la scena primaria di un amore grande e terribile, il principio di una leggenda. E tuttavia mai, mai nelle migliaia di pagine che lui avrebbe scritto negli anni a venire si può trovare una sola descrizione fisica di lei.

Il famoso avvocato era Nelson Mandela allora trentottenne e titolare con Oliver Tambo di un importante studio legale –  un laboratorio dei diritti civili nel cuore del peggior regime segregazionista del mondo. All’epoca non c’erano più di sessanta avvocati di colore in tutto il Sudafrica e Mandela era già una celebrità: si muoveva nell’ambiente giudiziario trattando i colleghi bianchi da pari; aveva organizzato un’azione nazionale di disobbedienza civile ed era  stato in prigione per aver sfidato l’apartheid. Il processo che l’aveva  coinvolto aveva avuto una copertura stampa eccezionale e in tutte le case, per mesi, non si era parlato d’altro. Nelson viveva ancora con la sua prima moglie e i tre figli, ma con Evelyn Mase erano agli sgoccioli. Lei non ce la faceva a  sopportare i rischi della vita che lui si era scelto e probabilmente anche le sue infedeltà.

Quel pomeriggio Madiba – questo il suo nome familiare e tribale – vestiva come sempre con ricercata eleganza, il suo sarto era Alfred Kahan, il più caro della città. L’avvocato era notoriamente un tombeur des femmes, uno che – come diceva lui – “se una signora prende nota di me, certo non me ne lamento”. La ragazza alla fermata dell’autobus si chiamava Winnie Madikizela e aveva quasi vent’anni di meno, era una bellezza già notata e fotografata sui giornali dell’epoca. Sarebbe diventata la seconda moglie di Mandela nel 1958. La cerimonia fu celebrata a più di mille chilometri da Johannesburg, nell’affollata chiesa metodista del distretto di Bizana dove il padre di lei era un’autorità. Winnie apparteneva, come Mandela, all’aristocrazia Xhosa, una nazione importante nel mosaico del Sudafrica, gente che si esprime in una lingua tonale elegante, fatta di sospiri e piccoli click. Ms. Madikizela aveva ricevuto la miglior educazione possibile per una ragazza nera del tempo e i suoi l’avevano preparata perché avesse un posto nel mondo.

Winnie divenne la compagna dei tempi bui, quelli dello scontro e della prigionia, anche se la vera vita matrimoniale con Nelson fu un battito di ciglia. Neanche due anni prima del lungo tunnel che va dal primo arresto di Mandela alla clandestinità successiva al suo rilascio: dopo il massacro di Sharpeville, dove la polizia sparò ai dimostranti, nacque il braccio armato dell’African National Congress (Anc) e iniziò una campagna di sabotaggi. Quando si arrivò al processo di Rivonia per alto tradimento nel 1963, i due erano marito e moglie da cinque anni. Condannato all’ergastolo, Mandela sarà scarcerato nel 1990 e uscirà acclamato dalla folla stringendo la mano di lei. Aveva scontato ventisette anni, diciotto trascorsi a Robben Island, un isolotto alla fine del mondo nel mare freddo e color ardesia che divide la punta dell’Africa dall’Antartide. Laggiù il primo problema era stato restare vivi e non impazzire. E dunque quell’immagine di loro due mano nella mano sembrava il lieto fine di una lunga e romantica storia. Non era così. Dopo la liberazione dal carcere, arrivò la clamorosa separazione. Winnie è stata il grande amore e il lato oscuro di Nelson, la sua kryptonite. La vulnerabilità, come ha efficacemente scritto Richard Stengel, il giornalista di Time Magazine poi sottosegretario dell’amministrazione Obama, che fu coautore dell’autobiografia di Mandela intitolata “A long walk to freedom” (in Italia pubblicata da Feltrinelli). 

Certo, il regime spiava e perseguitava Winnie: fu rinchiusa in isolamento e le furono sottratti i bambini, fu molestata e costantemente provocata per ricattare Nelson e infangarne il carisma. E si sapeva delle sue numerose infedeltà, del resto rimase sola per quasi trent’anni. Ma soprattutto sono note le sue posizioni politiche differenti e incendiarie: stanare e bruciare collaborazionisti e spie per liberare il paese dall’apartheid. Lo stoicismo di Mandela non le apparteneva e fu coinvolta in oscuri fatti di sangue; basta ricordare che, tra il 1997 e il ’98, fu processata e ritenuta politicamente e moralmente responsabile di gravi violazioni dei diritti umani. E solo ora possiamo capire davvero il turbine di amore e furore che legava Nelson e Winnie. Adesso, a dieci anni dalla morte di lui nel 2013 e a cinque dalla scomparsa di lei nel 2018, è uscito un libro che per la prima volta racconta la loro storia riempiendo vuoti e illuminando zone d’ombra.

“Winnie & Nelson. Portrait of a marriage” del sudafricano Jonny Steinberg, già professore di African Studies a Oxford e oggi impegnato tra il MacMillan’s Centre dell’Università di Yale e il Wit Institute di Johannesburg, è stato recentemente pubblicato da Knopf (ma si può trovare anche in edizione Harper and Collins). Per scriverlo, Steinberg ha potuto utilizzare un’eccezionale, crudele documentazione: la trascrizione, fatta segretamente dai carcerieri, dei colloqui di Madiba con i familiari, e di quelli segretamente intercorsi con membri del governo dell’apartheid. Materiali che ormai appartengono alla storia e che nel 1994 furono fatti sparire dall’allora ministro della Giustizia Kobie Coetsee, come del resto successe con molti altri documenti compromettenti. I Mandela file sottratti da Coetsee  sono circa quindicimila pagine e oggi si trovano presso l’Archivio di Contemporary Affairs dell’Università di Bloemfontein, dove la vedova dell’ex ministro li ha depositati.

Così Steinberg ha potuto scrivere un ritratto di coppia rispettoso ma privo di retorica, sfilando delicatamente la maschera ai protagonisti. Entrambi avevano costruito, e reciprocamente avallato, una narrazione funzionale a sostenere il tracciato di spine che fu la long walk to freedom. Non può che farci tenerezza sapere che mitizzarono le loro origini e ricostruirono la loro formazione con un po’ di polvere di stelle. Per resistere nella battaglia dei trent’anni avevano bisogno di un’epica della bellezza e del coraggio. Una loro Camelot, un mito fondativo tipo quello utilizzato dai Kennedy sulla falsariga della leggenda di Re Artù. Così lui omise la fine ingloriosa del suo primo matrimonio e avallò l’immagine di una Winnie bellissima, timida e un po’ naif, sbalordita dalla corte del famoso avvocato. Ora sappiamo che anche lei lo corteggiava e che, per i canoni allora correnti, era una ragazza insolitamente audace; il vero racconto di quella seduzione, all’epoca, non sarebbe stato tollerabile…  Tanto più che pure Winnie era legata a un altro, uno che quando seppe che lei stava per sposare Mandela inghiottì una scatola di pillole e finì in ospedale. Nelson e Winnie hanno edulcorato la loro storia come fanno i genitori quando la raccontano ai figli, ma entrambi sapevano a che cosa andavano incontro. Lui l’avrebbe condivisa con altri uomini, com’era stato fin dal principio; lei con una nazione intera. L’infedeltà, scrive Steinberg, fu un continuo elemento di disturbo nel loro matrimonio. O forse la gelosia funzionò – chi può dirlo? – come collante passionale per restare insieme nella tempesta.

Il lato più interessante di questa ricostruzione non è in questi dettagli di costume o nel sapere che Nelson e Winnie hanno un po’ esagerato l’importanza dell’aristocrazia rurale da cui provenivano. Lui non avrebbe mai ricevuto l’istruzione o acquisito la rete di rapporti necessari a diventare Mandela, se non fosse entrato nella guardia reale di Thembu; lei aveva un padre con uno studio pieno di libri, ma vantava un po’ ridicolmente un pedigree con un quarto di sangue bianco… L’interessante di questa biografia coniugale sta semmai nell’aver messo bene a fuoco la loro comune consapevolezza di mettere la vita privata al servizio di un ruolo pubblico. Come avrebbero fatto un re e una regina o come una coppia presidenziale americana di quell’epoca, entrambi intuirono la potenza dell’immagine di loro due insieme. Lo percepirono istintivamente ben prima che fosse concettualmente definibile: “Se c’era uno che sapeva quanto la forza politica risiedesse non solo nel contenuto delle parole, ma anche nella sua immagine mentre le diceva, quello era Nelson”, scrive Steinberg. E “se c’era una che aveva capito come l’accesso alla vita pubblica passasse per il come e il con chi ti fai vedere, quella era Winnie”. Ciò che non potevano conoscere erano le conseguenze e i rischi, non potevano immaginare che questo avrebbe divorato la loro intimità.

Steinberg ha scritto belle pagine sulle radici della classe dirigente nera che avrebbe sfidato l’apartheid. L’aristocrazia Xhosa volle cristianizzarsi e mandare i figli a scuola nelle missioni perché imparassero a leggere e formassero una nuova élite con accesso alle professioni: pensava ingenuamente che acquisendo la lingua, le conoscenze, la religione, nel giro di un paio di generazioni sarebbe stata riconosciuta alla pari. Invece le aspettative furono volgarmente tradite, dall’apartheid non si poteva uscire senza ribellarsi. Camelot andò a scontrarsi con prove terribili.

Nel sesto anniversario del loro matrimonio Madiba era già internato a Robben Island con una condanna a vita, Winnie era nella loro casa con un ordine di divieto a partecipare a pubbliche riunioni. Dal mese precedente, mentre si stava concludendo il processo di Rivonia, uno dei suoi amanti era andato a vivere con lei. Lo scandalo che ne seguì si diffuse rapidamente, attraversò l’Oceano e raggiunse Londra dove si trovava parte del quartier generale dell’Anc in esilio. Di lì rimbalzò nella cella di Mandela sull’isola remota. Ma a distruggere Camelot fu la brutta storia del Mandela United Football Club.

Nel 1985, Winnie tornò a Orlando West sfidando l’ordine di confino a Brandfort. Trovò Soweto in uno stato insurrezionale permanente. Guerra tra bande, distretti, famiglie, fazioni politiche e gruppi di interesse, conflitti violenti con assassinii, roghi, soprusi e pestaggi quotidiani. Senza speranza e senza direzione politica la lotta all’apartheid si stava trasformando in una guerra intestina tra neri. Chiamarsi Mandela e vivere in quel posto significava rischiare la pelle. Fu allora che Winnie, per dare delle regole ai ragazzi di strada e garantirsi una guardia del corpo, fondò il Mandela United Football Club. Ma presto il gruppo si trasformò in una banda di squadristi i cui crimini (rapimenti, torture, omicidi di informatori e presunti collaborazionisti) furono silenziati per un po’. Ci si rifiutava di credere che fossero stati commessi nel nome di Mandela e con l’avallo di sua moglie. Steinberg riferisce testimonianze su come molti anni dopo, da parlamentare del nuovo Sudafrica, Winnie ricordasse quei tempi. I neri avevano imparato a vivere nei limiti dell’apartheid, molti di loro avrebbero potuto andare avanti così per sempre: “Per sollevarsi, dovevano avere più paura di me che dei bianchi”, diceva lei candidamente. “La paura”, commenta Steinberg, “era ormai diventata tecnica politica, anzi la tecnica politica per eccellenza”.

Quando trattò con i suoi nemici la fine dell’apartheid e la transizione democratica, Mandela sapeva bene che se ci fosse stato un bagno di sangue non sarebbe stato solo con i bianchi, ma anche tra la sua gente. Anche per questo si strappò Winnie dal cuore. Leggere le trascrizioni dei loro colloqui in carcere è straziante: soprattutto quando riguardano i figli, esposti al vento incendiario che bruciava Soweto. Mandela capisce, non vuole siano coinvolti, sa ma non può dire perché immagina di essere ascoltato. Nelle faccende di famiglia appare estremamente fragile, non è lo stesso uomo – acuto e tagliente – che tratta con il nemico. Non meno tragici appaiono i rapporti con i compagni di lotta, soprattutto quelli di nuova generazione. Quando si seppe che Madiba era uscito dall’inferno di Robben Island e aveva avviato colloqui con il governo, girò voce che si era venduto. Da entrambe le parti – amici e nemici – si mossero correnti decise a screditarlo, per far saltare il negoziato e toglierli la leadership.

Winnie & Nelson sono stati una coppia bellissima e triste. Lui era profondamente realista, un gentiluomo vittoriano cui era stato insegnato a non lagnarsi e a non mostrare il dolore. Lei no, era fantasiosa e ribelle e “sembrava voler bruciare le cose anziché cambiarle”, ha scritto Richard Stengel che li conobbe entrambi, nella sua recensione di questo libro sul Guardian. A ottant’anni Mandela fece un nuovo matrimonio dinastico, carico di significati simbolici: sposò l’avvocata Graça Simbine, influente donna politica e vedova di Samora Machel, l’uomo che dopo aver liberato il Mozambico appoggiò l’Anc contro l’apartheid. Fu il suo modo di restaurare Camelot con una nuova, potente immagine di coppia. Nonostante la condanna del Commissione per la verità e la riconciliazione – o forse proprio per questo – Winnie divenne invece l’icona dei delusi, la bandiera di un movimento che oggi diremmo populista.

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