(foto Ansa)

Il paradiso dei riabilitati

Non solo Barbie. La lunga marcia dei deplorevoli poi perdonati

Pierluigi Battista

La bambola di Mattel, che era simbolo della mercificazione del corpo delle donne, ora lotta contro il patriarcatoinsieme a noi. Riabilitazioni, da Totò a Fiorello, passando per Sanremo e i cinepanettoni 

La nuova Nikolay Bucharin si chiama Barbie. L’ultima stella nel capiente firmamento dei riabilitati: quelli che un tempo erano i paria, gli espulsi, i messi al bando, i disprezzati, i controrivoluzionari, i non allineati, i buzzurri, gli screanzati, i nemici del popolo e che poi i sacerdoti del dogma e della giusta linea decidono di risollevare dall’abisso per riconsacrarli nell’empireo dei “nostri”. 

Barbie, la nuova Bucharin, non ha certo sofferto la tragedia dei processi di Mosca con cui Stalin, con un bagno di sangue, aveva messo sotto chiave il paradiso della rivoluzione e spinto nel Gulag i suoi stessi compagni. Figurarsi, paragonarli sarebbe la solita solfa della prima volta tragedia e della seconda farsa. Ma Barbie è stata additata e messa alla berlina come il simbolo di ciò che non si deve fare, la mercificazione del corpo della donna, la dittatura estetica del maschio prevaricatore, l’arma letale del consumismo neocapitalistico, l’educazione alla sottomissione, l’emblema di una bellezza stereotipata e decerebrata per la bambine sedotte da tanta sciocca e ancillare bionditudine e che invece dovevano essere protette e crescere con le favole correttissime di Gianni Rodari: fuori Barbie dalle nostre stanzette. E invece ora, perentoriamente assiso su una montagna di soldi colorati di rosa e di fucsia, un film deflagrante che sta facendo impazzire il mondo delle ragazze ha ribaltato lo schema e ha offerto alle platee di sale cinematografiche un tempo vuote il simbolo biondo della liberazione femminile. Una Barbie portabandiera del femminismo con la stessa generosità idealistica della Marianne dal cappello frigio della tradizione rivoluzionaria francese. Una Barbie che addirittura si è trasformata in una mina sotto il potere ottuso del patriarcato. La reietta diventata regina. I sacerdoti e le sacerdotesse che stabiliscono ciò che è giusto cambiano abito e lessico e mettono sul piedistallo della buona reputazione la vittima dei loro passati pregiudizi. Non si stracciano le vesti per la loro ottusità spocchiosa. No, riabilitano: è più semplice e meno impegnativo perché ci esime dal ricordo di tutte le sciocchezze demolitorie che abbiamo detto. Abbiamo scherzato quando insultavamo Bucharin. Aveva ragione lui. Però, sai, noi avevamo ragione a stare dalla parte del torto e ce ne vantiamo anche. Sai, le circostanze cambiano.

Oramai è strapieno l’empireo dei riabilitati che in Italia hanno versato sudore e fatica, canzoni e film, libri e spettacoli per fuggire dall’inferno della delegittimazione ed entrare trionfalmente nel severo Salotto della Riabilitazione. Ne sa qualcosa, tanto per cominciare, Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti, a cui Michele Serra, presenza sempre molto autorevole nell’ufficio preposto alla vidimazione della buona condotta artistica, dispensò nel lontano 1999 queste amichevoli note critiche: “Jovanotti, idolo dell’estate danzerina, è pura lobotomia musicale. Dal demenziale alla demenza il salto non è di poco conto, si veste da scemo, canta in modo scemo canzoni sceme, incarna perfettamente quel giovanilismo da gelateria, superficiale e incolto, già santificato dal pubblico di Drive in”. Per risalire la china delle estati danzerine e del giovanilismo da gelateria (?) Jovanotti ha dovuto faticare come un dannato, ma a furia di appelli per l’Africa affamata, persino nel regno del nazional-popolare (“cancella il debito oh oh oh oh”, cantava e ondeggiava sul palco di Sanremo), l’ascesa verso la sommità della montagna dei riabilitati ha avuto successo: Jovanotti può entrare nell’ambiente che lo aveva accolto con tanto malanimo, come la Barbie ha infranto il soffitto di vetro della rispettabilità. Come la Barbie, e come Fiorello. Fiorello, che già non gli si potevano perdonare gli esordi pseudo-artistici nei palcoscenici di serie B come animatore dei villaggi turistici (“l’orrore! L’orrore!”, a detta dei Kurtz nostrani), era diventato con i suoi capelli raccolti a coda di cavallo un pericoloso sabotatore della morale politica pubblica, l’avanguardia dei barbari, la sottile arma di distrazione di massa inventata da un nemico subdolo: l’orrore del karaoke. Oggi può sembrare uno scherzo, ma davvero nell’atmosfera della discesa in campo di Berlusconi Fiorello con il suo karaoke (e anche un po’ la povera Ambra Angiolini con il suo auricolare) era diventato la bandiera che il perbenismo respingeva con un certo ribrezzo. “Forza Italia, la politica karaoke” era uno dei titoli più frequentati nei giornali di sinistra. Gianni Vattimo scriveva arcigni saggi su “la sinistra nell’èra del karaoke”, dove si parlava dell’“industria della persuasione e della comunicazione”. L’allora sindaco di Roma Francesco Rutelli venne veementemente contestato perché si era permesso di concedere piazza San Giovanni (sì, proprio quella dei concertoni del Primo Maggio e prima ancora meta delle grandi manifestazioni sindacali) al karaoke itinerante di Fiorello, che era uno showman formidabile già allora, non è cambiato lui, sono cambiati loro. Si alzò solenne anche la voce di Renato Nicolini, il geniale ex assessore del comune di Roma dei tempi di Argan che aveva inventato una cosa rivoluzionaria e sorprendente come l’Estate romana, scandalizzando conservatori e parrucconi. Ma stavolta il parruccone e il conservatore era proprio lui che tuonava contro “il rischio di regressione della città nella grande provincia”. 

Ha vinto Fiorello. A lui spetta la palma della riabilitazione. Oggi nessun riabilitatore oserebbe scrivere nemmeno un quarto delle invettive del tempo contro Fiorello, perché Fiorello è più grande dei suoi detrattori, come la Barbie e come Jovanotti. O come lo stesso Festival di Sanremo, schifato dall’establishment rinomato (che peraltro non esitò a scagliarsi a suo tempo anche contro l’introduzione della tv a colori: riabilitatissima) quando il Festival della canzone italiana emanava l’aroma inebriante della grande novità e lacrime di commozione bagnavano i volti delle italiane e degli italiani sulle note di “Nel blu dipinto di blu” (o “Volare”, a scelta) di Domenico Modugno. Una condanna ben riassunta dalle parole colme di disprezzo come quelle di Alberto Moravia, che lo considerava un’accozzaglia di “canzoni imbecilli”. Poi ci fu il dramma del suicidio di Luigi Tenco ad esacerbare un anatema che relegò nel girone delle streghe persino un’incolpevole Orietta Berti, destinata a soffrire tutta la vita per un accenno che Tenco le aveva riservato nel suo biglietto d’addio al mondo all’interno della stanza 219 dell’Hotel Savoy di Sanremo, dove si era finito con un colpo di pistola alla tempia. L’eco di quella tragica detonazione però si spense un po’ di anni più tardi, quando Sanremo, verso la fine del Novecento, fu lentamente riabilitato come cerimonia imprescindibile del nostro costume nazionale, sempre più vetrina di lamentazioni, rivendicazioni, appelli, sante cause da esibire davanti all’Italia intera. Così tanto riabilitato, che adesso sono i riabilitatori, già denigratori di un tempo, cioè  più o meno sempre gli stessi, da pubblici accusatori ad avvocati della difesa, a proclamare con sdegnata combattività “Giù le mani da Sanremo!”.

Alberto Moravia, si diceva. Un bel po’ di cinema italiano dovette passare sotto le forche caudine della delegittimazione e della scomunica. Moravia si vantava di non voler vedere “I soliti ignoti”, la commedia all’italiana, una delle perle della nostra cultura nazionale, e in particolare le commedie sceneggiate da Rodolfo Sonego per Alberto Sordi, due capolavori come “Il vedovo” e “Lo scapolo” (leggere il libro di Tatti Sanguineti “Il cervello di Alberto Sordi” pubblicato da Adelphi per sincerarsene). L’aria era quella (e con i cinepattoni, oggi finalmente in odore di riabilitazione, l’inquisizione raggiunse vette quasi isteriche) e il bacchettonismo progressista, che non è un’invenzione dei nostri giorni, colpiva duro chi non si adeguava ai canoni santificati dall’ideologia e addirittura si permetteva di far divertire gli spettatori. Sul nome di Alberto Sordi, oggi super-riabilitato, stagnava del resto un’atmosfera un po’ mefitica di sospetto e di non accettazione. Ma Totò, come è noto e come è stato ampiamente documentato da un libro come “Totò, l’uomo e la maschera” di Franca Faldini e Goffredo Fofi, fu il denigrato per eccellenza. Le sue smorfie insospettivano, quei movimenti da burattino insospettivano, quei doppi sensi così espliciti (“Troia, Troia, questo nome non mi è nuovo”) insospettivano, quei siparietti qualunquisti e anche se vogliamo un po’ colonialisti (“Come ti chiami?”, “Alì”, “Mortè?”, “No, Babà”, “E mammà come sta”) insospettivano. “Una farsa grossolana”, ed era “Totò, Peppino… e la malafemmina”. “Fumetto della peggior qualità”, ed era sempre un capolavoro come “Totò, Peppino… e la malafemmina” per la regia di Camillo Mastrocinque con aiuto regista Ettore Scola (quanto ci manca) che solo per quel “noio volovan savuar l’indiriss” davanti al Duomo con due meridionali in colbacco avrebbe meritato la nomination agli Oscar. Ce n’è voluto di tempo nell’Ufficio preposto alla Riabilitazione per accorgersi di aver preso un granchio gigantesco. C’è voluto “Uccellacci e uccellini” di Pier Paolo Pasolini (peraltro anche lui al tempo sotto esame per via di qualche sbavatura eretica prima della trionfale riabilitazione post mortem) per fare di Totò il Grande Riabilitato. Renzo Arbore ha detto che “la sinistra snobbava Totò e ha cercato poi di riappropriarsene abusivamente”. Come che sia: chi oggi potrebbe permettersi di attaccarlo in quel modo becero e sussiegoso?

Una riabilitazione che non dovette attendere la conclusione fisica e artistica in questa valle di lacrime. Per Guido Morselli (anche per Anna Maria Ortese è accaduto qualcosa di simile) è stato diverso: quando era in vita mandava i manoscritti alle case editrici più blasonate che regolarmente li rifiutavano non senza una punta di disprezzo, come “Il comunista” liquidato da Italo Calvino alla stregua di un libretto in cui “ogni accento di verità si perde”. Lo recupererà l’elegantissima casa editrice Adelphi, e il centro di riabilitazione intellettuale ha così trovato il modo di cambiare idea, ignorando tutto ciò che era stato decretato prima. Di Lucio Battisti la verità di una diffidenza politica (forse quei “boschi di braccia tese” erano la spia di una sua simpatia per il fascismo?) si mescolava a leggende metropolitane secondo le quali a sinistra si poteva ascoltare Battisti solo clandestinamente: falso, fake news.

Ma la riabilitazione post mortem di Battisti-Mogol è arrivata piena, corale, incontrastata. Tuttavia forse il più spettacolare caso di riabilitazione è stato inscenato sul corpo e la carriera di Nino D’Angelo. Un tempo, ai primordi, era scattato l’allarme rosso per lo “scugnizzo col caschetto” chiamato così corrivamente a causa della  sua capigliatura messa nelle mani di un parrucchiere non proprio raffinato, per il cantante dalle frequentazioni non del tutto adamantine e diciamo pure un po’ ambigue semplicemente perché si guadagnava da vivere a Napoli come “cantante nei matrimoni”, per il suo tentativo di diventare una star nel mondo come si dice adesso “opaco” della sceneggiata napoletana. Lui, Nino D’Angelo, la racconta come un incubo, il branco che gli veniva addosso famelico, i censori con il dito puntato contro il reprobo. Dirà in un’intervista che si era trattato addirittura di uno squallido “fenomeno di razzismo musicale”. Poi, miracolo napoletano, “si sono accorti che sotto i capelli gialli tenevo ’na capa”. La fabbrica della riabilitazione rovesciò tutto quello che era stato detto e scomunicato fino al giorno prima. Venne nominato da Antonio Bassolino, allora sindaco di Napoli, direttore artistico del Teatro Trianon Viviani di Forcella. Fu invitato nelle aule dell’Università Suor Orsola Benincasa, un gioiello della cultura partenopea, e per le sue musiche di “Tano da morire” fu gratificato di riconoscimenti piovuti dai santuari della consacrazione e della legittimazione come un David di Donatello seguito da un Nastro d’Argento. Quelli che ancora mancano per stabilire la definitiva consacrazione e riabilitazione di Checco Zalone, accolto come il simbolo della volgarità pure un po’ destrorsa, che però si è dimostrato aperto ed accogliente trattando il tema dei migranti: in corso di verifica. Ma per lui il percorso della riabilitazione completa è scandito dalla stessa lentezza delle nuove carte di identità a Roma: bisogna pazientare e attendere tempi biblici.

Ma per finire, ecco la cerimonia solenne di riabilitazione di tutti i riabilitati, così simile a Ognissanti che è la festa di ciascun santo: è arrivato il tempo di Mediaset, il tempio del Male, la fucina di tutti i mostri antropologici, da accostare adesso alla compagnia rivalutata di Totò e della Barbie. Ora Mediaset è stata compiutamente riabilitata da Berlinguer, tendenza Bianca. Sebbene molto prima di lei fosse già arrivato un combattivo e patentato riabilitatore di nome Michele. Michele chi? Ma Michele Santoro, che domande.

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