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rappresentazione

La nuova “Aida” è il simbolo perfetto della nostra disgraziata contemporaneità

Alberto Mattioli

L'opera del regista Stefano Poda è adatta ad un pubblico dall'immaginario televisivo, ma è vuota della stessa storia che dovrebbe raccontare

Al netto della gran soirée nazionalsovranista d’apertura in universovisione, l’ostensione di Sophia Loren, gli strafalcioni di Milly Carlucci, il coro tricolore, le Frecce idem e viva l’Italia più oleografica e banale, mancava solo il parmesan cheese, questa nuova “Aida” dell’Arena di Verona griffata in toto Stefano Poda (regia, scene, costumi, luci, coreografia) dice poco su “Aida” ma molto sul nostro mondo. Intanto, rispetto alla diretta tivù modello “di tutto e di più”, c’è per fortuna di meno. Manca un po’ di scenografia, non si sa se per un benvenuto ripensamento minimalista o per i noti problemi di montaggio e smontaggio nell’affollatissimo cartellone areniano. Sta di fatto che, finalmente, le gradinate dietro il palco restano vuote, e non ci sarà mai sfondo altrettanto bello; e che in scena ci sono, in buona sostanza, soltanto la famigerata “manona” semovente e un paio di piramidine-ine-ine che Zeffirelli avrebbe usato come fermacarte. Poda non è mai stato un regista d’opera, nel senso che non si è mai posto il problema di affrontare una drammaturgia, men che meno di risolverla. È semmai un installatore (o un arredatore, a seconda di come si preferisce il bicchiere), un creatore di immagini che hanno un legame del tutto ipotetico con la storia che dovrebbero raccontare, anche se sono condite dalle fluviali interviste con le quali Poda, affettuosamente ribattezzato “er Fuffa”, parla molto per non dire nulla, e così abbiamo pure il vero e degno erede del compianto Arnaldo Forlani. Qui la sua fuffosità si esplica in notevoli transumanze di masse, bei giochi di luci, raggi laser che piacciono sempre, un mirrorball taglia XXL da discoteca anni Ottanta sospeso in alto, una certa insolita (per l’Arena) precisione di movimenti, una recitazione inesistente e dei costumi sberluccicanti: memorabile, in particolare, il bolerino glitterato sfoggiato da Radamès nel Trionfo, che sarebbe stato considerato too much perfino da Wanda Osiris. Potrebbe essere qualsiasi opera, e non perché “non c’è l’antico Egitto”, come direbbe Zorro Veronesi, quanto perché la storia di Aida & co., semplicemente, non viene raccontata, e figuriamoci ragionarci su per capire cosa ce la possa rendere interessante oggi.

Insomma, è l’estetica delle cerimonie d’apertura delle Olimpiadi o dei Campionati di calcio. E, paradossalmente, va bene proprio per questo. E’ uno show neobarocco, sontuoso, scintillante, intimamente televisivo, insomma pop, e infatti assai applaudito da una folla né radical né chic, il cui immaginario è, appunto, televisivo. Non a caso, quel che piace di più sono i ballabili, la parte più esornativa e decorativa del capolavoro. Passando dal particolare dell’Arena al generale della nostra disgraziata contemporaneità, si tratta in realtà della solita spettacolarità che si risolve tutta nell’immagine, cotta e mangiata, un hic et nunc dal quale è bandita ogni necessità di riflessione o di interpretazione, dunque di complessità. Puro intrattenimento, divertissement, decorazione. Volendo fare i moralisti, è l’ennesima arma di distrazione di massa, però non lo siamo quindi ci limitiamo a chiedere, almeno, un po’ di ironia. Che cosa voglia dire la manona che si apre e chiude, che significato abbia, che cosa spieghi di “Aida”, di Verdi e più in generale di noi, non ha alcuna importanza: basta che la gente faccia “ooh” come i piccioni di Povia. Va bene per l’Italia, dove si crede ancora che le regie d’opera “non debbano disturbare”; va benissimo per l’Arena. Se nazionalpop dev’essere, allora bisognerà ammettere che quest’“Aida” può legittimamente non piacere, ma indubbiamente funziona. E costituisce forse una via d’uscita dalla ripetizione sempre più stanca degli Zeffirelli d’ordinanza.

Quanto a Verdi, in una serata di dignitosa routine musicale a lui provvede una piramidale (lei, sì) Anna Netrebko. I suoi pianissimi, compreso il pestifero do acuto dei “Cieli azzurri”, sono pura poesia, riempiono l’enorme anfiteatro, ci titillano le orecchie e sono la dimostrazione che anche all’Arena si può cantare piano. Certo, sapendolo fare.

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