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Kundera chi? Tra i tanti elogi, i giornali italiani si sono dimenticati solo che era anticomunista

Nicola Mirenzi

Le parole "comunismo" e "antitotalitario" sono introvabili nelle prime pagine che parlano della morte dello scrittore 

Davvero per l’Italia Milan Kundera è stato solo uno scrittore “ironico e inquieto”, dalla “vita altrove”, “libero dalle ossessioni”, uno “scrittore fantasma”, “un giullare e sovrano del gran regno dei romanzi”, uno scrittore “contro la pesantezza del mondo”? E lo scrittore che ha messo la “letteratura contro i totalitarismi”, come ha scritto il Figaro, dov’è finito? E’ scomparso, è stato dimenticato, non interessa più a nessuno? Oppure, non è mai interessato a nessuno?

 

Nei titoli dei giornali che hanno dato la notizia della morte del romanziere è prevalso il gusto per il gioco di parole con i nomi dei suoi romanzi. A eccezione del Giornale, in nessuna prima pagina si leggeva la parola “comunismo”, come se nei romanzi di Kundera non si tornasse immancabilmente lì, al delirio del paradiso in terra. Ancora più introvabile, la parola precisa: antitotalitario. Fosse stato uno “scherzo” – per restare in tema di giochi di parole con i titoli kunderiani – poteva essere divertente. Ma non lo era.

 

In un’intervista del 1984 all’amico Philip Roth, pubblicata in Perché scrivere?, Kundera dice: “E’ molto facile condannare i gulag, ma rifiutare la poesia totalitaria che porta al gulag attraverso il paradiso è difficile”.

 

Sapeva bene di cosa parlava, Kundera, perché quella lirica aveva ammaliato anche lui: a 18 anni si era iscritto al partito comunista cecoslovacco e ne era diventato un militante entusiasta e fervente, finché non venne espulso una prima volta nel 1956 e – dopo essere stato reintegrato – di nuovo, e definitivamente, nel 1970, per la sua partecipazione alla primavera di Praga. Fu la moglie Věra, conduttrice della tv di stato, a dare la notizia che i carri armati sovietici erano entrati nel Paese per soffocare i moti popolari, nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 (l’anno dopo venne licenziata). L’intervento militare fece crollare in Kundera ogni illusione sulla possibile riforma del sistema socialista e, contemporaneamente, alimentò la sua tragica e costante meditazione letteraria sul perché, cercando di realizzare il bene di tutti, gli uomini finiscano inevitabilmente per fare il male a una sterminata quantità di singoli.

 

“Il totalitarismo”, diceva, “non è solo l’inferno, ma anche il sogno del paradiso – l’antichissimo sogno di un mondo in cui tutti vivano in armonia, uniti da un’unica volontà e da una fede comune, senza segreti l’uno per l’altro”. Senza il ricorso a questi archetipi, presenti in ciascuno di noi e radicati in ogni religione, nessun totalitarismo, diceva, “potrebbe mai riuscire ad attrarre così tante persone”. 

 

Quando nel 1975 Kundera si trasferì in Francia, molti di quelli che sognavano il paradiso videro (anche) nei suoi romanzi il rovescio nefasto dei loro slanci onirici. I nouveaux philosophes tentarono di farne una bandiera politica, un Sartre liberale. Ma lui rifiutò anche questo ruolo. Venendo dall’Europa orientale, aveva provato a spiegare agli amici francesi il massacro culturale avvenuto in Cecoslovacchia. Le rivolte centro europee (Ungheria 1956, oltre quella del suo paese) – spiegava – erano state preparate, innescate, attuate dai romanzi, dalla poesia, dal teatro, dal cinema, dalla storiografia, dalle riviste, da spettacoli comici, da discussioni filosofiche. Non dai media. Nessuno però riusciva a capire cosa intendesse dire. Perché “se sparissero tutte le riviste”, scrive in Un occidente prigioniero, “non se ne accorgerebbe nessuno, nemmeno il loro editore. A Parigi, persino negli ambienti colti, a cena si discute di trasmissioni televisive”.

 

Diceva che “nei paesi comunisti la polizia ha distrutto la vita privata” mentre “nei paesi democratici sono i giornalisti che la minacciano”. Si può solo immaginare allora cosa pensasse dei social network. Di sicuro, scorgeva una pulsione totalitaria anche nella “nostra epoca tecnologica, con il suo culto del futuro, il suo culto della giovinezza e dell’infanzia, la sua indifferenza per il passato e la sua diffidenza per il pensiero”. Anche per questa ragione dal gennaio del 1985 decise di non farsi più vedere. Mai più in tv, mai più sui giornali. E va bene che sarebbe un delitto ridurre i romanzi di Milan Kundera alla sua posizione antitotalitaria. Ma altrettanto ingiusto sarebbe rimuoverla. Non foss’altro perché “il mondo totaliatario, sia esso fondato su Marx, sull’islam o si qualunque altra cosa, è un mondo di risposte e non di domande”. Un mondo, diceva, in cui “non c’è posto per il romanzo”. 

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