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tra cronaca e letteratura

L'ultimo atto di Berlusconi: “Il re è morto” e non è il momento di essere sobri

Guido Vitiello

La morte di un uomo caricato di un tale peso simbolico non è una morte qualunque. Ai tanti che lamentano l’assenza di compostezza e di misura di questi ultimi giorni si può rispondere in un solo modo: non è stato abbastanza 

Quando, a Marrakech, saltò fuori travestito da cantore gnawa con indosso una gandura blu, la tradizionale tunica berbera, per fare una sorpresa a Veronica Lario nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, pensai subito a un istrionismo bonario e un po’ pacchiano da commedia italiana, con quel tocco di esotismo coloniale che non mancava mai nei film nordafricani e mediorientali di Totò. Fu solo anni dopo, al tempo dei primi scandali sessuali, leggendo nelle cronache la descrizione della distesa di bungalow allestiti per le ragazze alle feste di Villa Certosa, che cominciai a sospingere a sud la palma della mia immaginazione e a vedere in Berlusconi una forma meno ordinaria ma letterariamente più nobile di megalomania, quasi una perturbante variazione moderna dei re sacri dell’Africa subsahariana di cui scriveva James Frazer nel Ramo d’Oro. La rivelazione, confesso, mi spaventò e affascinò insieme. Avevo pensato fino ad allora di avere a che fare con un nuovo Cittadino Kane di Orson Welles; ora intravedevo alle sue spalle la sagoma scura del Kurtz di Cuore di tenebra, commerciante di avorio trasfigurato in re divino. 

Da quel giorno, sfilai Berlusconi dalla cornice razionalistica della politica moderna in cui lo avevo sistemato nel 1994 e cominciai a contemplare la fase discendente della sua parabola in un’altra cornice – quella, incomparabilmente più vasta, dell’antropologia e dell’etnologia, malgrado le mie conoscenze in quei terreni fossero sparse e dilettantesche e, soprattutto, tutte mediate dalla letteratura, dal cinema e dalla poesia. Diventò ai miei occhi uno di quei sovrani arcaici dalla cui integrità fisica e dalla cui potenza sessuale dipendevano la salute o la rovina, la fertilità o la desolazione della città. Il regno non era che un’estensione smisurata del suo corpo che aspirava a inglobare tutto, residenze private e palazzi istituzionali, città e set televisivi, stadi e supermercati, fino a coincidere in ultimo con l’Italia intera, che confidò di voler rendere un po’ più simile alla Fininvest (ed era anche questo un sogno arcaico più che una chimera prosaica da uomo d’affari). Anche l’odio che si attirò, di moderno aveva ben poco. La statuina del Duomo con cui Tartaglia tentò il regicidio-deicidio, quel sangue sul volto che accrebbe anziché incrinare il suo potere simbolico, mi riportò a un’immaginosa congettura di René Girard sull’origine della regalità: il re non è che una vittima espiatoria sopravvissuta per accidente a un sacrificio incompiuto. E al di là di quell’episodio estremo, tutta la retorica antiberlusconiana – che insisteva sul tema tragico e sofocleo della “dismisura”, o hybris – mi pareva che ne avesse fatto un Edipo a Cologno, il re appestato che dal trono diffonde via etere il contagio su tutta la città. La morte di un uomo caricato di un tale peso simbolico – che tanti, sintomaticamente, hanno confessato nei giorni scorsi di aver creduto immortale – non è una morte qualunque. “La mia morte è sterminata. Quanto universo si spegne in me”, avrebbe potuto dire Berlusconi con le parole del monarca frazeriano di Eugène Ionesco (Le Roi se meurt), che trascinava tutto il cosmo nella sua riluttante agonia. 

Tre giorni di lutto nazionale sono politicamente alquanto discutibili e forse non sono istituzionalmente corretti; in compenso sono antropologicamente correttissimi: anzi, sono il minimo. Roger Caillois (L’homme et le sacré) raccontò le licenze rituali – sacrilegi, incendi, saccheggi – a cui ci si abbandonava nel terribile interludio tra la morte di un re sacro e la decomposizione del suo cadavere. Ebbene, ai tanti che lamentano l’assenza di compostezza e di misura di questi ultimi giorni io dico: non è stato abbastanza. Già che le liturgie della sepoltura e del lutto si fanno per i vivi, affinché il morto implacato non si ripresenti a tormentarli, avrei voluto vedere uno psicodramma nazionale in grande stile, con la flebile speranza di una catarsi. Amori e odi sbrigliati, pianti rituali, processioni di flagellanti, accessi di tarantolate, sabba, festini, profanazioni, orge di gioia magari, ma senza vergogna, senza freno: non i piccoli risentimenti farisaici di un Lerner o di un Montanari, imbiancati più del mausoleo di Villa San Martino, ma il tripudio di chi si è liberato infine dal propagatore della peste, la gioia feroce del capitano Willard di Apocalypse Now che abbatte Kurtz con un machete mentre i nativi scannano ritualmente un bue; e quanto agli amori, non gli amori trattenuti e incastonati tra i distinguo, ma l’ultima follia di Emilio Fede che aspira a gettarsi sulla pira come una vedova indiana. Non è il momento di essere sobri. Siamo stati ossessionati da questo Padre primordiale per trent’anni. Nel lugubre interregno, diamo fondo alle passioni più selvagge, le stesse che il morto ci ha suscitato quand’era vivo e regnante. Non dobbiamo aver fretta di chiudere la porta del mausoleo, concediamoci di vivere come si deve l’ultimo atto dell’interminabile psicodramma. Cos’abbiamo da perdere, da temere? Il momento è questo, e non potrà certo andare avanti in eterno: il rito teatrale di Ionesco durava esattamente un’ora e trenta minuti. Le sue note di scena, prima di far calare il sipario: “Il Re seduto sul trono deve restare visibile qualche istante prima di sprofondare in una sorta di nebbia”.

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