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Il mémoir

“Il grande cielo”, la montagna significa guardare e tremare

Marco Archetti

Il libro di Alberto Rollo è un romanzo a tratti, una mappa di se stesso: ma anche un pensiero gettato oltre l'orizzonte di un mondo distrutto da prospettive misere e modeste. Una dialettica di amore e terrore

Ne “Il grande cielo” di Alberto Rollo (Ponte alle Grazie, pp. 200, euro 16) non c’è quella montagna là – la montagna facilista in voga, la montagna grave di messaggio veritativo, la montagna salvifica, scuola dei buoni e dei saggi, tutta lezioni di vita a uso dello scrittore filosofoide che, al cospetto delle vette, in febbricitante suggestione metaforica, impiatta spicciole Epifanie ad uso di altri suggestionabili. Non c’è nemmeno la montagna da cartolina riflessiva, messa lì a bella posta dal Dio della metafora per baciare chi voglia farne un qualsiasi tipo di bottino. Perché c’è tutt’altro. Tanto per cominciare, un uomo di pianura, un milanese – quel che definiremmo un chiarissimo punto di vista – che aspira al cielo attraverso la montagna: ma quale montagna? Una montagna “non per invettarsi, non per affollarla di cronoscalate”. Un uomo che immagina e ama, esponendosi all’educazione continua di se stesso attraverso l’incontro con ciò che sfugge, in perenne ed elastico moto di andata e ritorno tra infanzia e maturità (la fantasia, e la forza prima dell’emorragia irredimibile del tempo), tra padre e padre (il proprio, Cesare, e quello che Alberto si ritroverà a essere), tra passato e presente (dal Limidario immaginato da ragazzino alla Valsesia di decenni dopo).

 

È un romanzo a tratti, un mémoir di scarponi, una mappa di se stesso sub specie escursionistica, ma non solo: un pensiero gettato “al di là” di un orizzonte – questo, il nostro – ormai distrutto da prospettive misere e da visioni modeste contente di quella modestia, e sempre cercando un equilibrio, tentato per una vita, tra cielo e terra, “tra le spinte all’ascensione e le rocce dell’escursione”. La montagna vissuta per andare oltre la montagna, la montagna raccontata da un uomo che non le appartiene mai e rispetto alla quale si pone, piuttosto, in relazione di dialettico amore e terrore. Ne “Il grande cielo” c’è, sontuoso, il formidabile. E in senso strettamente etimologico – da formido, che significa spavento, e formidare, cioè temere, esitare – perché ciò che Rollo bambino guarda, a cavalcioni del Guzzi rosso fuoco di suo padre mentre gli indica le Prealpi, è proprio quello, ed è proprio così: l’accavallarsi imponente e sterminato di una promessa piena di attrazione e di mistero, l’accavallarsi dell’immaginazione e della paura stessa. Niente di troppo diverso dal “thauma” – mal tradotto con semplice “meraviglia” – che ha generato la filosofia, cioè quel guardare e tremare, quel sapersi esposti al male e allo smisurato nell’esatto istante in cui si percepisce il mondo e se ne avverte l’avventuroso pericolo – un pericolo verso cui si deve partire.

 

Al di là,” scrive Rollo, “era un’espressione che mi faceva battere il cuore velocemente, anche se in verità in quei tempi, in quell’Italia ansiosa, a me sarebbe bastato stare nel mezzo, arrendermi sgomento e felice all’architettura di cime e ghiacciai, trovare un sentiero”. In quell’Italia, sì: perché oltre a esserci la montagna, c’è una vita per frammenti, la crescita e la formazione iniziata sulla moto di un padre operaio e comunista (diffidente degli escursionisti e assai più dei catechisti) che aveva fatto il militare a Bardonecchia e passato la vita in fabbrica e credeva nel fare bene le cose, padre guida che ti fa soprattutto immaginare, che indica e suggerisce, tanto poi tocca sempre aspettare, aspettare di “avere gli scarponi”, di avere l’adeguatezza; ma verrà, verrà quella vita “disseminata di scarponi”, fino alla visione trina (che capitolo splendido) della propria figlia Elena tra distanza e prossimità, consci delle regole del gioco di ogni esistenza, dell’enigma del tempo e dello spazio, della furia dell’esistente. “Il grande cielo” è la prosecuzione di “Un’educazione milanese” con altre scarpe. Ed è in dialogo anche con le poesie de “L’ultimo turno di guardia” perché quelle di Rollo sono tutte opere sul senso dello sguardo e dell’esperire, che non è mai toccare e fuggire, ma fidarsi delle cose e del loro potere di plasmarci. Un grande canto contro la Fine, scritto da un pessimista apocalittico. Che riesce a dirci, luminosamente e malgré soi: “Siano benedetti. I vivi, i fantasmi, i ricreati.”

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