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i filosofi e la modernità

Byung-chul Han e la paura della globalizzazione. L'uomo "turista" nel mondo

Mariano Croce

Nel suo ultimo libro "Iperculturalità. Cultura e globalizzazione", il filosofo coreano riflette sulla smaterializzazione di spazi e confini. E non nasconde una certa angoscia, come già Schmitt e Heidegger. Buone ragioni per rassicurarlo

"Non essere nata animale è una mia segreta nostalgia" scrive Clarice Lispector in Acqua viva. E, in effetti, per noi esseri umani, assieme a quel grumo di nostalgia che porta con sé, la nostra animalità imperfetta ci crea più di qualche problema. Essì, perché c’è quel brutto affare chiamato neotenia: una sorta di ritardo dello sviluppo somatico, che, a differenza degli animali non-umani, ci fa costitutivamente immaturi, precari, bisognosi di cure e di continuo apprendimento. A differenza degli animali non-umani, che beati loro possono contare su una robusta dotazione di istinti sempre appropriati al loro ambiente, l’essere umano, quale parto prematuro, rimane un disadattato cronico.

Questa l’ipotesi tutt’altro che insensata dell’antropologia filosofica tedesca del secolo scorso: la grave carenza istintuale umana è alla base di ciò che chiamiamo cultura. Per Arnold Gehlen, la cultura, con il suo linguaggio, i suoi riti e i suoi saperi, è una seconda natura, che pone rimedio all’assenza di istinti. Tramite la capacità di produrre simboli, cioè, in buona sostanza, di usare il linguaggio, l’animale umano si fa architetto non di un ambiente, tipico dell’animale non-umano, ma di un mondo. Massone per vocazione, l’essere umano riesce a farsi un mondo ovunque sulla Terra e recupera così l’iniziale svantaggio sugli animali, che rimangono legati al loro ambiente e che fuori dei suoi confini rischiano sempre la vita, come la mosca nella tela del ragno: l’ambiente dell’uno significa la fine dell’altra.

Eppure, insigni studiosi suonano oggi una campana a morto che dovrebbe far tremare i polsi: pare che la cultura, quest’armatura artificiale senza di cui si fa la fine della mosca in preda al ragno, stia venendo meno. La vicenda, un po’ dramma un po’ farsa, è più o meno questa: se l’essere umano non gode di istruzioni innate con le quali prodursi un ambiente, come ad esempio l’erba, i cespugli o i letti di foglie rinsecchite per le zecche, e se la cultura gli permette di farsi un “qui”, di istituire confini che segnano il dentro rispetto al fuori di un “altrove”, da trent’anni circa la globalizzazione sta assottigliando quei confini tanto preziosi tra il “qui” e l’“altrove”. E, a quanto pare, avere una casa ovunque non è un gran vantaggio, non solo per le tasse che s’hanno da pagare, ma perché in nessuna di queste ci si sente davvero a casa.

Questa la tesi ben difesa in Iperculturalità. Cultura e globalizzazione (Nottetempo 2023) di Byung-chul Han, filosofo sudcoreano molto pop di stanza a Berlino (anch’essa molto pop). Lo slogan è felice: la Kultur si fa Kul-Tour. Detto altrimenti, l’essere umano dei giorni nostri è diventato un turista che, grazie agli strumenti della tecnologia, può in grande velocità spostarsi ovunque e ovunque perimetrarsi il suo “qui”. I social media, sempre a portata di mano, lo rendono un pellegrino che attraversa uno spazio virtualmente (termine tecnico, se si vuole) senza confini. La metafora su cui Byung-chul Han torna a più riprese è la differenza tra testo e ipertesto. Il testo – si pensi a un tradizionale romanzo – cattura in una struttura piuttosto rigida, cui il lettore si consegna senza potersi muovere a piacimento: ha da seguire una trama, adattarsi a uno stile, elaborare un linguaggio. All’opposto, l’ipertesto – si pensi a una qualsiasi pagina di Wikipedia – è un insieme di testi tra loro collegati da parole chiave, che consentono spostamenti e salti non lineari, privi di un qualsivoglia ordine prestabilito. Ecco: la cultura che è giunta traballante ma viva alla fine del Novecento era un testo: imponeva un ordine all’esperienza, catturava il soggetto nella sua trama, lo dotava di un linguaggio e di tecniche cui egli affidava la propria possibilità di fare esperienza del mondo in modo sempre orientato, filtrato, direzionale. Oggi, di contro, la cultura è una ipercultura, dove schemi e griglie sono esplosi e i linguaggi si ibridano, mentre salti continui sono resi possibili da quel terribile buco spazio-temporale che è il web con i suoi attrezzi mediatici.  

Altra appropriatissima metafora per rendere conto della stessa tragedia iperculturale è il windowing, che ciascuno di noi esperisce su qualsiasi computer, per cui le finestre (windows) consentono di muoversi in uno spazio dematerializzato. Sembra davvero lo spazio di certe fisiche nuove, suggestive e gustose, che negano l’esistenza dello spazio e fanno della distanza una sorta di erronea proiezione della conoscenza umana. E assieme allo spazio, viene meno anche il tempo, giacché l’esperienza del soggetto non conta più sulle scansioni tradizionali che la cultura fino a ieri imponeva con le sue ritualità, le sue pause, i suoi momenti di celebrazione e di raccoglimento. Nello spazio dematerializzato, ognuno scandisce i propri tempi secondo i salti spazio-temporali che si trova a compiere, come se si celebrasse il capodanno su Instagram o altro strumento mediale, e quindi a vivere una ritualità consolidatissima, unica e apparentemente universale moltiplicata per i ventiquattro fusi orari.

Ma non ci si lasci ingannare: questa iperculturalità non è affatto una bella cosa – anzi. Per Byung-chul Han, l’erosione di uno spazio “confinato”, che trasforma i nostri “qui” in “ovunque”, induce negli esseri umani una sorta di delirio, dovuto alla perdita d’identità: “Una caratteristica dell’oggi è il declino dell’orizzonte: i nessi capaci di produrre senso e identità scompaiono. La frammentazione, la puntinizzazione e la pluralizzazione sono tutti sintomi del contemporaneo, che valgono anche per l’odierna esperienza del tempo: non esiste più quel tempo compiuto che deve la propria esistenza a un’elegante struttura di passato, presente e futuro, quindi a una storia, un arco narrativo” (p. 73). In questo mondo senza ordine di spazio e tempo, in cui ogni individuo può forgiarsi il suo “qui” e il suo senso ultimo delle cose e della vita, non si può far conto su “un orizzonte assoluto” (p. 74). Come nell’ultima puntata di Lost, madre divinizzata di tutte le serie televisive, ci si ritrova in un tempio munito dei simboli di ogni religione: l’individuo può ritagliarsi il suo spicchio di sacro, in un arcobaleno di precetti e valori che solo per ventura e mai per progetto potrà assomigliare a quello degli altri. Non c’è più fuori e dentro, interno ed esterno, io e altro, amico e nemico. C’è un territorio senza barriere né dogane, dove il turista iperculturale raccoglie quel che vuole e si forgia il proprio micro-mondo a immagine e somiglianza delle proprie sovrane preferenze.

Non sorprende che i numi tutelari di questo pianto del tempo saldo che fu rispetto al tempo liquido che viene siano proprio i filosofi dell’origine: Martin Heidegger, in particolare, e Carl Schmitt, che apre Iperculturalità in esergo (a sua insaputa, sia chiaro). E se pure non è questo lo spazio giusto per far filosofia, varrà la pena dire due parole su entità tanto numinose. Heidegger e Schmitt erano contemporanei del summenzionato Gehlen, e assieme a lui andavano riflettendo sulla particolare posizione dell’essere umano nel mondo ai loro giorni: un mondo sconvolto da cambiamenti che minacciavano le culture nazionali, costruite con tanta fatica nel corso di tre e più secoli. Ma al netto dei pericoli che sentivano come incombenti, nella sostanza la loro idea, più che semplice, è puerile: senza un sistema di coordinate, l’essere umano non sa come muoversi in un ambiente che, di suo, non impartisce istruzioni. E nessuno può negare una verità tanto evidente. Il fatto è che, però, Heidegger e Schmitt vivevano nella Germania di inizio Novecento, dove, si sa, si andava in cerca di istruzioni particolarmente robuste. L’idea al tempo ampiamente diffusa, e presto pronta a incarnarsi in politiche dissennate, era che la cultura facesse un tutt’uno col destino di un popolo, un Volk. Si andava alla ricerca di miti atavici, linee culturali perse nell’alba del medioevo, indicazioni su un destino comune che si credevano depositate in una lingua diffusa in quasi mezza Europa. La fascinazione dei tre, e non solo loro, era per l’avvenire di un popolo raccolto intorno ad alcune caratteristiche di base (lingua, pelle, sangue), che si credeva legassero gli individui a un progetto collettivo.

Ma Heidegger, Gehlen e Schmitt avevano un viziaccio comune: caricavano le loro prodigiose intuizioni teoriche delle loro angosce, al punto che, spesso, quando li si legge, non si capisce se la loro sia un’analisi o un testamento, una diagnosi o un grido d’aiuto. E questo mi pare valga un po’ anche per Byung-chul Han. Personalmente, tendo a credere che il loro discorso sulla cultura sia una confessione, una sorta di manifestazione panica che chiama a una decrittazione, e come come tale vorrei prenderlo in chiusura di questo scritto. E forse per la superficialità del turista iperculturale, che mi comanda una sorta di passione per la vita liquida, mi sentirei di rassicurarli: credo che tutto questo baccano per la perdita di mondo sia ampiamente esagerato. Non a caso Heidegger e Schmitt ammainavano in segno di lutto la bandiera della cultura e piangevano la liquefazione dei confini a tutto vantaggio di un globalismo senza patrie già a inizio Novecento, quando il web era poco meno che una distopia. Come Byung-chul Han, Heidegger, Gehlen e Schmitt, e tutti i cantori dell’atavico, sanno in fondo che la cultura è una grande menzogna, un’ipotesi che regge solo fintantoché ci si crede – e quando la gente prende a crederci meno, inevitabilmente lascia intravvedere il volto labile di congettura.

Allora, vorrei in chiusura prendere in prestito la tesi di Byung-chul Han e liberarla dal residuo d’inquietudine, così da farne una proposta meno angosciosa e meno carica di sensi di colpa. Sì, perché a leggere Iperculturalità, un po’ sembra che il soggetto iperculturale debba pentirsi di usare Instagram o TikTok, che vanno divorando le ultime loro riserve di senso; debba rammaricarsi di fare capolino dall’altra parte del mondo con un click, senza prima fare dichiarazione di fede a un destino cui votare la propria esistenza linguistica e morale. Invece, il libro di per sé porta un nucleo degno del massimo interesse, una tesi che andrebbe non tanto rovesciata quanto fatta respirare in un’aria meno viziata.

Una cultura unitaria, omogenea, conchiusa su sé esiste solo nelle fantasie di chi della vita umana ha una concezione ispirata all’epica e alla tragedia, e ama deliziarsi di favole che esaltano tutte le condizioni estreme. Ma Byung-chul Han, nei suoi momenti più felici, come a far tralucere uno studiato principio di schisi, insiste sul carattere inevitabilmente ibrido di ogni costruzione simbolica umana. Come ben si sapeva nel medioevo, la più pluralista e musiva delle epoche, la cultura è fatta di zone di prossimità, condotti di scambio, transizioni e transazioni. Basta una passeggiata tra la grande moschea e il quartiere ebraico di Cordova per avere l’immediata percezione della mescolanza tipica di secoli che pure non facevano tema di tesi radicali e in cui il senso si credeva inscritto nella natura e nei testi sacri. Quel medioevo, che riluce nei crocicchi posti a ridosso delle zone di appartenenza, esaltava proprio la capacità di mantenere un qui senza privarsi dello scambio con l’altrove. Il medioevo, quale congerie di esperimenti morali, artistici, religiosi, giuridici, che non si lasciavano certo conchiudere nel destino angusto di un solo popolo, provava un’istintiva ripugnanza per gli orizzonti assoluti, tanto da non perdere tempo a tratteggiarli.

Ma non bisogna risalire tanto indietro nel tempo per ispirarsi quel poco di fiducia che qui vorrei propiziare. Basta forse tornare sulle parole di Schmitt evocate da Byung-chul Han in apertura: “Anche nella lotta accanita tra forze antiche e nuove sorgono giuste misure e si plasmano sensate proporzioni”. Il turista senza tempo e spazio di cui si parla in Iperculturalità siede ancora in caffè con sedie in legno e tazze in porcellana, intorno a me che scrivo, mentre compulsa siti internet e compita il nome delle nuove aperture in centro città. Per raggiungere quei locali dovrà comunque spostarsi e coprire distanze materiali. Né la finestra virtuale, che pur concede uno sguardo sulle pietanze e l’impiattamento, potrà sostituire il suo gusto – e poi si è tutti sospettosi di sovraesposizioni e filtri. Insomma, giuste misure e sensate proporzioni per una realtà che mette a disposizione dell’animale umano nuovi strumenti per articolare il proprio essere al mondo e nuovi linguaggi per offrirne descrizioni attendibili. Ma questo a Byung-chul Han è ben chiaro: che i suoi libri siano ovunque, anche grazie ai social media, credo ai suoi occhi sia un vantaggio non da poco. Meritato, in fondo, sia chiaro.