(foto Wikipedia)

Timorato eterodosso

La molte vite di Jacob Taubes, il filosofo-rabbino che fu geniale e maledetto

Giuseppe Perconte Licatese

La biografia di Jerry Z. Muller: un lavoro in cui la storia del protagonista si interseca con quella dei maggiori pensatori della filosofia e della teologia politiche del secolo scorso

Il padre, Zvi, nel giorno del suo bar mitzvah – era il 1936 – gli comandò di diventare un dotto e timorato rabbino. Ma Jacob Taubes avrebbe interpretato il ruolo in modo eterodosso, come racconta la recente biografia di Jerry Z. Muller, Professor of Apocalypse. The many lives of Jacob Taubes (Princeton University Press, in parallelo tradotta in tedesco dall’editore Suhrkamp): un lavoro in cui la storia del protagonista si interseca con quella dei maggiori pensatori della filosofia e della teologia politiche del secolo scorso. Taubes è un soggetto elusivo per lo storico delle idee: rade le sue pubblicazioni, ma pervasiva la sua influenza di maestro orale, disseminatore di intuizioni sul messianismo e sul rapporto tra ebraismo e cristianesimo e tra religione e politica. La fonte principale di Muller – oltre alle tante lettere nelle quali Taubes parla delle sue idee ma, anche, drammatizza la propria vicenda esistenziale – sono state le interviste con i diretti testimoni del suo insegnamento e dell’impatto che la sua personalità ebbe in un contesto intellettuale che si distendeva tra Europa, Israele e Stati Uniti. Uomo dal singolare carisma, Taubes è stato anche una persona “tanto tormentata quanto capace di tormentare gli altri”. Senza arrivare a condividere il terribile giudizio dato su di lui da Gershom Sholem, molti hanno attestato i tratti manipolatori e menzogneri di un professore la cui vita “fornirebbe materiale per un romanzo di Saul Bellow”, ai suoi giorni catalizzatore di un’atmosfera che Susan Sontag volle in parte rendere nel film “Duet for Cannibals”. Ad altri, questo ordinario della Freie Universität di Berlino, capace di padroneggiare tutte le lingue delle mode intellettuali del momento e di coltivare legami con persone tanto diverse quali Hans Urs von Balthasar, Herbert Marcuse e Armin Mohler, dava l’impressione di essere un ciarlatano, o un performer dalle molte facce.

 

Da giovane, Jacob era stato affidato a Leo Strauss perché fosse istruito su Maimonide. Se per Strauss il filosofo doveva osservare la Legge anche quando interiormente la riflessione lo avesse portato a essere ateo, il suo allievo decise che si doveva essere tutto l’opposto: devoti al Dio che viene e che salva, anche se irreligiosi e immorali: come le antiche sette degli antinomisti. Su tutte tragica la figura della prima moglie, Susan Feldmann, figlia di ebrei apostati (Muller parla a proposito di lei di “genuino paganesimo”), studiosa di Simone Weil che con Taubes litiga sul senso della religione e sulla scelta di stabilirsi o meno in Israele, e che muore suicida a New York appena dopo l’uscita del suo romanzo, Divorcing, in cui è adombrata la storia della coppia. 

 

Muller suggerisce che uno dei principali meriti del Taubes pensatore sia stato quello di porre in dubbio la finzione, figlia del contesto del secondo Dopoguerra, di una unitaria tradizione giudaico-cristiana, ironicamente apparsa, osservò Taubes, quando ormai l’occidente si avviava a diventare postcristiano. Egli muore di tumore nel 1987, non prima di aver tenuto al matrimonio del primogenito un crepuscolare discorso sulla situazione di chi, in un mondo in cui la religione scompare, si sentiva “l’ultimo anello della catena della tradizione”. Ma è ancora capace di rispondere à la Woody Allen a chi gli chiedeva come stesse: “Metastaticamente, malaccio; metafisicamente, molto bene!” A Heidelberg tiene le sue ultime lezioni su san Paolo – anni prima era stato Carl Schmitt a raccomandarsi: le cose che lei sa, le trasmetta ad altri prima di morire – che saranno trascritte e pubblicate con devozione dai coniugi Assmann. 

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