Selfie davanti a un carro armato russo distrutto in Piazza San Michele a Kyiv, Ucraina (Foto di Christopher Furlong/Getty Images) 

Il potere dei carri armati. Perché continuano a essere determinanti, anche in Ucraina

Siegmund Ginzberg

Sono decenni che ci viene detto che i panzer sono obsoleti. A sconfiggerli basterebbe un uomo con un Bazooka o un Javelin. Non è così. Da Hitler a Stalin, da Praga a piazza Tienanmen. Fenomenologia di un simbolo

Furono impiegati per la prima volta verso la fine della Grande guerra. Servivano agli Alleati a sbloccare lo stallo della guerra di trincea. Fu inizialmente un disastro. Venivano distrutti dall’artiglieria tedesca, trasformandosi in trappole mortali, bare di acciaio infuocato per i loro equipaggi. La propaganda di guerra tedesca irrideva il carro armato. Gli contrapponeva il coraggio umano. Un’illustrazione di Ernst Schilling sulla copertina del settimanale satirico Simplicissimus del 17 settembre 1918 mostra un tank inglese affrontato e distrutto da un singolo soldato che lancia granate. “Sono i cuori, non le macchine a decidere l’esito”, dice la didascalia. In realtà a decidere fu la potenza economica, la logistica, la capacità di produrli in massa, di approvvigionarli. Quando giunsero al fronte in migliaia fecero la differenza. 


I carri russi danzanti nella neve un anno fa parevano invincibili. Poi li abbiamo visti scoperchiati come gusci di tartaruga, o di trilobite preistorica, bersagliati senza scampo come al tiro al piccione, addossati uno all’altro in colonne lunghe decine di chilometri. Avevano, abbiamo letto, un tallone d’Achille. Per risparmiare spazio, e consentire la ricarica meccanica del cannone, i proiettili sono stipati in cerchio tutto intorno ai carristi. Se un proiettile riesce a penetrare, questi non hanno scampo, le munizioni stipate in tondo esplodono, la torretta salta come il coperchio di una pentola a pressione, loro vengono polverizzati. Resta solo la carcassa decapitata del tank. 

     

Sono parecchi decenni che ci viene detto che i carri armati sono obsoleti. A sconfiggere il drago d’acciaio basta un uomo solo con un Bazooka o un Javelin a spalla, o con una bottiglia molotov. Così vorrebbe la leggenda. Sono molti i conflitti anche recenti nei quali i tank hanno fatto cilecca. E pure aerei ed elicotteri, che sulla carta sono la migliore arma anti-tank. In realtà non è proprio così. E’ vero che può bastare un drone ad annientare una macchina da molti milioni di euro o dollari (4 e passa per i Leopard 2 tedeschi, 6 e passa per gli Abrams americani, una somma dello stesso ordine di grandezza per i T-90 russi, che i generali di Putin si sono guardati bene sinora dallo sprecare in Ucraina, preferendo scialare carne da cannone che gli costa poco o niente). Ma ci sono situazioni in cui a decidere la battaglia sono i vecchi dinosauri. E’ la vecchia storia della spada e dello scudo. Reso inefficace lo scudo da spade sempre più affilate, si inventano scudi più efficienti o, viceversa, spade più potenti. Succede per i missili e i fantascientifici scudi stellari, esattamente come per i carri armati.

  

Un uomo osserva i tank russi distrutti fuori Bucha il 5 dicembre 2022 (Foto di Jeff J Mitchell/Getty Images) 
  
Ci deve essere pure una ragione se Zelensky chiedeva con tanta insistenza che gli inviassero i tank pesanti, e Mosca minacciava rappresaglie da fine del mondo se l’occidente li avesse forniti. Il conflitto in Ucraina si è ormai arenato in guerra di posizione, come un secolo fa si era impantanata per anni nelle trincee la Prima guerra mondiale. E’ chiaro che non ci sarà tregua finché le parti non riterranno di avere conseguito sul campo una posizione da cui negoziare meglio. Si preparano al grande scontro in primavera, quando sgelerà. E per tornare dalla guerra di trincea a una guerra di movimento nelle steppe sterminate servono i carri armati. Non per niente lì si sono combattute le più grandi battaglie di carri della storia, con migliaia di mezzi corazzati da una parte e dall’altra. I panzer di Hitler erano tecnicamente superiori. Ma Stalin ne produceva di più e poteva rifornirli meglio, grazie anche agli aiuti americani e all’intelligence inglese. Anche allora gli alleati occidentali esitavano a fornire materiale avanzato. 


Se ne sono sentite di scuse. I tedeschi dicevano che i Leopard servivano a loro, poi che la fornitura li metteva a rischio di rappresaglie, che era troppo complicato imparare a usarli e, infine, che dovevano fare i conti con la propria opinione pubblica. Temevano, e non del tutto a torto, di essere lasciati soli, come era successo per il gas. In realtà si è poi capito che il vero problema del cancelliere Scholz erano le obiezioni pacifiste che venivano dalla sua coalizione, anzi dall’interno del suo Partito socialdemocratico. “E’ una macchina molto complicata. Non possiamo fornire agli ucraini sistemi che non sarebbero in grado di riparare, di mantenere, e alla lunga non gli sarebbero di utilità”. Anche a Washington il problema per Biden erano le obiezioni dal Pentagono e gli equilibri politici interni. La situazione si è sbloccata quando Washington si è risolta a fornire anche i propri Abrams. Non saranno una trentina di questi mezzi a risolvere la situazione al fronte. Ma il principio che la Germania e l’Europa non si espongono da sole, ciascuna per proprio conto, forse sì.  

   

Il carro armato è un microcosmo concentrato delle paure e delle contraddizioni della condizione umana, e della politica internazionale

  
Il carro armato è da sempre un simbolo, un microcosmo concentrato delle paure e delle contraddizioni della condizione umana, e pure della politica internazionale. Mi sono rimasti negli occhi della mente scene di film in bianco e nero visti da ragazzo. Non saprei dire al momento se è in Niente di nuovo sul fronte occidentale, tratto dal romanzo di Erich Maria Remarque. Il primo, ineguagliato, del russo naturalizzato americano Lewis Milestone, risale al 1930. Quello più popolare è del 1979. Un ultimo remake del tedesco Edward Berger è del 2022. Ricordo una scena in cui il carro armato passa sopra la trincea, sembra che ti schiacci. Poi su internet ho scoperto che nascondersi in una buca, per aggredire il carro dalla parte più vulnerabile, da dietro, fa ancora parte dell’addestramento. In un’altra scena, un soldato ustiona un proprio commilitone sparando un razzo anti-carro. L’urlo straziante tornava nei miei incubi. I tank in fatto di claustrofobia fanno a gara con i sottomarini. E li superano di larga misura. Altro film capolavoro: Sahara del 1943, dove è Humphrey Bogart a fare il carrista in Nord Africa. Un gioiello assoluto il film israeliano Lebanon del 2009, di Samuel Maoz, girato come se ci si trovasse nell’abitacolo di un Merkava. E’ il mondo, un’intera guerra, anzi l’intero conflitto tra Israele e gli arabi, più crudeli tra di loro che col nemico israeliano, visto non da una finestra, ma dal mirino di un carro armato. Un po’ più americanata è il successivo Fury di David Ayer, del 2014. Abbondano con eroismi da western, sangue alla Quentin Tarantino, scene truculente da dipinto di Bosch o Bruegel, tedeschi impiccati dalle SS ai pali della luce con al collo il cartello che dice “si sono rifiutati di combattere per il Führer”, altri corpi fatti a pezzi, stritolati come pupazzi dai cingoli. Protagonista Brad Pitt, duro comandante di un battaglione di tank americani Sherman alle prese coi Tiger tedeschi. Gli ordini del generale Patton prevedevano che ci fossero almeno tre Sherman a ingaggiare un Tiger. La meccanica tedesca ha ancora il primato dell’eccellenza. 

  

Un meccanico ucraino guida un carro russo riparato in un bosco fuori Kharkiv il 26 settembre 2022 (Foto di Paula Bronstein/Getty Images) 
   

C’erano una volta i cantori della macchina miracolosa, della “cannoniera automobile”, della “prodigiosa sintesi fra l’uomo bellico e le sue creature meccaniche”. Ci fu un’epoca in cui i cervelli più creativi d’Italia e d’Europa erano in deliquio di fronte al mito delle macchine che, con la loro incredibile velocità, erano in grado di annientare la vecchia antiquata cavalleria. C’è chi dice che proprio dai carri armati, e comunque dall’aggressività della fabbrica, il cubismo avrebbe tratto le fattezze squadrate, gli angoli metallici, le punte aguzze. Filippo Tommaso Marinetti si scioglieva dinanzi all’idea della “Guerra come igiene del mondo”, così come, anni dopo, Ernst Jünger avrebbe goduto nelle “Tempeste d’acciaio”.  

  

 Galvano della Volpe, filosofo marxista, da giovane pubblicò sul Primato di Bottai un saggio su “L’estetica del carro armato”

   
“Metà dinosauro, metà ingegnere”: così il grande scrittore tedesco combattente nella Prima guerra mondiale sarebbe stato definito in un suo saggio giovanile dal filosofo Günther Anders, poi umanista e pacifista. L’uomo è antiquato, in cui Anders denuncia la “vergogna prometeica” dell’umanità di fronte alle macchine, era stata, accanto al Capitale di Marx, una delle letture che mi avevano formato al ginnasio. A quell’età divoravo voracemente di tutto. Ma, anche famelico com’ero, trovai ostico La libertà comunista di Galvano della Volpe. Solo di recente ho appreso che il filosofo marxista che andava così di moda tra i miei coetanei di estrema sinistra, da giovane era stato sedotto dalla potenza dei panzer tedeschi che invadevano la Francia, al punto di pubblicare nel luglio del 1940 sul Primato di Bottai (il ministro fascista dell’educazione nazionale) un saggio su “L’estetica del carro armato”.

 

Persone riunite sui carri dell'esercito turco all'aeroporto Ataturk il 16 luglio 2016 (Foto di Defne Karadeniz/Getty Images) 
   
Io invece, confesso, non mi sono mai innamorato dei carri armati. Sì, da bambino ci giocavo coi modellini. Avrò subito anch’io il fascino di quel cannone in perenne erezione sulla torretta girevole. Ma non più di tanto. I miei primi carri armati dal vero erano quelli che vidi per le strade della mia Istanbul nel settembre 1955. Era stata proclamata la legge marziale in seguito ai disordini contro i greci e gli “stranieri” più in generale. In teoria ci avrebbero dovuto proteggere contro i facinorosi che, istigati e manovrati da un governo in difficoltà, avevano ucciso e devastato. Quella volta non ce l’avevano specificamente con gli ebrei. Ma il nome sull’insegna del negozietto di vernici di mio padre presso il ponte di Galata non era proprio turco. Le vernici all’anilina sono esplosive. Era bruciato tutto. Mio padre aveva venduto il poco che gli restava, pochi mesi dopo ci eravamo imbarcati diretti in Italia (anzi, in Europa) dove, pensava mio padre, “queste cose non succedono più”. E’ morto molto prima di potersi rendere conto che succedono, eccome.

  

Quelli del Movimento studentesco della Statale di Milano inneggiavano ai “Battaglioni di Stalin”. La minoranza militante dei “carristi”

   
In Turchia sarei dovuto tornare a prestare il servizio militare. Non ne avevo la minima intenzione. Rinviai per tutta la durata degli studi universitari. Nel frattempo i carri armati erano tornati per le strade di Istanbul non so più quante volte. Con l’aiuto dei libri di storia ho contato sei golpe a tutt’oggi. Ora si parla di un settimo per puntellare al potere Erdogan. I carri sferragliarono per le strade di Istanbul e di Ankara nel 1960, contro i politici “corrotti”. Poi ancora nel 1971 contro un governo di centrodestra, che non riusciva a controllare gli opposti estremismi del ’68 turco. A Istanbul si sparava dai cortei e contro i cortei. Il golpe del 1980 fu il più sanguinoso: 50 giustiziati, mezzo milione di arresti, centinaia di morti in carcere. Fu sterminata definitivamente la sinistra. Io ero ebreo, per giunta comunista, non parlavo più il turco, pensavo da tempo solo in italiano. Mi crederete se vi dico che mi immedesimo nei giovani russi che scappano per non andare a sparare e morire in Ucraina. C’era un inghippo: non avevo diritto alla cittadinanza italiana; anzi nemmeno a farne domanda se prima non facevo il militare in Turchia. Non si parlava ancora di ius soli, tanto meno di ius scholae. 

  
Di carri armati parlava la canzone che avevano improvvisato nel 1968 i compagni della Sezione universitaria del Pci alla Statale di Milano. Sull’aria di Quel mazzolin di fiori, faceva: “Quella bandiera rossa sul carro armato / oh quanto dolore ci ha dato”. Le parole le aveva inventate Gaspara Pajetta, una delle figlie di Gian Carlo. Parlava dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Il “dispiacere” è vedere quei carri che avevano ricacciato Hitler e liberato Berlino schiacciare un tentativo di “socialismo dal volto umano”. Il rammarico è che non si sia protestato – qualcuno in verità lo fece e se ne andò dolorosamente dal partito –  già quando, poco più di un decennio prima, i carri russi avevano invaso l’Ungheria. La canzone non ebbe molto successo. Quelli del Movimento studentesco della Statale disprezzavano come traditori della rivoluzione noi del Pci. Preferivano inneggiare, a passo di marcia nel loro servizio d’ordine militarizzato, ai “Battaglioni di Stalin”. Una minoranza molto di sinistra, che militava tra i socialisti, divenne nota come “i carristi”: approvavano i carri sovietici senza se o ma. Alcuni sono approdati a destra.

  
C’erano guerre, come quella dei Sei giorni, tra Israele e l’intero mondo arabo, in cui avevano un ruolo di primo piano i mezzi corazzati. Ma negli anni 60 e 70 il carro era stato, per la mia generazione, simbolo di golpe, di violenza armata contro i governi legittimamente eletti e i civili. Ricordo il carro armato sulla copertina di un libriccino dal titolo Coup d’Etat: A Practical Handbook, un manuale pratico del colpo di stato. L’autore era un allora giovane e brillante studioso americano, Edward Luttwak. 
Poi nel 1989 i carri armati fecero strage a Pechino. Non ci si limitò a dispiegarli in funzione intimidatoria. Vennero usati per schiacciare gli studenti che da settimane occupavano la piazza chiedendo democrazia. Ricordo un collega, peraltro simpatico, che si faceva in quattro per giustificare la scelta di Deng Xiaoping. Non c’era da meravigliarsi. Prima che a Pechino aveva fatto il corrispondente dalla Madrid di Franco, dalla Washington di John Kennedy, dalla Mosca di Brežnev. Immancabilmente si era fatto in quattro a ingraziarsi quelli al momento al potere. Ha fatto scuola.

   
L’uomo solo di fronte al carro armato in piazza Tienanmen divenne il simbolo del coraggio e della resistenza. Lo videro in molti dai balconi del Beijing Fandian, l’albergo con vista laterale sulla piazza in cui alloggiavano i giornalisti. Negli scatti di Stuart Franklin per la Magnum si vede un uomo magro e mingherlino, in camicia bianca, con in mano una borsa di tela di quelle allora diffusissime in Cina, fermare un’intera colonna di carri armati mettendoglisi davanti. Il carro capofila imballa il motore, minaccia di travolgerlo, prova a superarlo a destra, poi a sinistra. Lui imperterrito, saltella di lato per impedirgli di passare, continua a fargli segno con la mano che si fermino, tornino indietro. Poi lo si vede arrampicarsi sul carro, mettersi a discutere col guidatore emerso dalla torretta. Alla fine si vede che lo portano via. Non si è mai saputo il suo nome, chi fosse, che cosa diceva ai carristi, né che fine abbia fatto.