Facce dispari

Francesco Merola: “La sceneggiata rinascerà nel nome di mio padre”

Francesco Palmieri

Figlio di Mario, ’O Zappatore, si dedica anche lui alla sceneggiata. "I miei spettacoli registrano il sold out perché il pubblico vuol ricordarlo assieme a me. D’altra parte, se la sceneggiata non la fa suo figlio, chi la deve fare?"

È dispari il destino di alcuni figli d’arte: difficilmente pareggeranno i padri ma sempre ai padri si rapporteranno. Francesco Merola, 52 anni, si dedica nella medesima città allo stesso lavoro di Mario “re della sceneggiata”, voce del popolo-popolo che non passa di moda perché non è stato moda, ma emblema, guappo buono, il portuale che s’innalza da sé e conquista il mondo, capace ieri oggi e domani di stuzzicare snobismo o commuovere con la sola evocazione del suo nome. Ei fu par excellence ’O Zappatore, di cui rimettiamo l’inutile difesa poiché sgorgato dalla penna di un poeta come Libero Bovio (figlio del filosofo Giovanni, lui sì che si smarcò vivendo di giornalismo e versi). Francesco Merola anziché darsi al rap o al rock ha scientemente proseguito sulla scia paterna per rimanere “’o figlio ’e Merola”. Passerà Natale al Teatro Trianon Viviani (edificato 111 anni fa sopra le mura greche nell’ombelico di Forcella) presentando dal 22 al 30 dicembre “Canzona ’e… Guapparia”: una riproposizione della sceneggiata che lo vede protagonista con la moglie Marianna Mercurio, per la regia e le scene di Bruno Garofalo.

 

Lei vinse con suo padre il Festival di Napoli del 2001 cantando “L’urdemo emigrante”. Dopo la sua scomparsa nel 2006 ha continuato sullo stesso sentiero. Non soffre il paragone?

Quando esitavo a riproporre “Zappatore” pensando all’interpretazione di papà, mi sbloccò Nino D’Angelo, che all’epoca era il direttore artistico del Trianon Viviani. Disse: “Solo tu ’o puo’ ffà, perché se tu sbagli tiene ’o permesso ’e sbaglià”. Adesso la direzione è passata a Marisa Laurito, ma anche lei mi vede come la continuazione di papà.

 

E lei lo è?

So che un altro Mario Merola non ci sarà più, ma i miei spettacoli registrano il sold out perché il pubblico vuol ricordarlo assieme a me, che sono il suo sangue. D’altra parte, se la sceneggiata non la fa suo figlio, chi la deve fare? Quando salgo in palcoscenico mi tremano le gambe, ma il miglior complimento che posso ricevere alla fine è questo: “L’hai recitata come tuo padre”.

 

La sceneggiata nasce a cavallo della Grande Guerra e si trasferisce al cinema a fine anni Settanta, mentre nel linguaggio corrente, per estensione spregiativa, indica una strumentale messinscena a scopi utilitari. Pensa che abbia ancora futuro?

Ci credo come ci credeva mio padre che la riportò in auge. Gli attori adatti ci sono e c’è il pubblico. Piuttosto sono morti gli organizzatori, ma il genere è pronto per un rilancio su scala nazionale. Le richieste ci sono, serve una produzione seria: “La sceneggiata – diceva papà – o si fa bene o è meglio lasciar perdere”.

 

Cosa s’aspetta dallo spettacolo che sta per portare in scena?

Sarebbe bello rincontrare tra il pubblico, ormai adulti, quei bambini che quando recitava papà lo fomentavano dalla platea a dare una lezione al ‘malamente’ gridando: “Accidilo!”. Li sentivo da piccolo dietro le quinte.

 

Cos’è la sceneggiata?

’Nu suonno ’e fantasia.

 

Se potesse, con quale titolo resusciterebbe suo padre?

Mi rammarico che non sia stato prodotto uno spettacolo con lui e Franco Franchi. Perché la vera sceneggiata deve pure far sorridere bene.

 

Franchi fu il suo compare di battesimo.

Glielo chiese papà e lui acconsentì purché mi dessero il suo nome. Fuori dalla scena era lo stesso che al cinema o in tv. Genuino. Ma gentiluomo. In mezzo a tutte le disgrazie che ci tocca sentire, di tanto in tanto riguardatevi Franco Franchi o Totò e sdrammatizzate con una risata.

 

In memoria di suo padre lei ha composto la canzone “Parla cu’’mme”. Tiene più a questa o ai brani cantati assieme a lui?

Papà diceva che “le canzoni so’ comm’’e figlie. Bisogna voler bene a tutte”. Ma se dovessi indicare una terna, con “Parla cu’’mme” metterei “L’urdemo emigrante” e “Cient’anne”.

 

“Cient’anne” è il pezzo del ’92 che consacrò l’investitura di Gigi D’Alessio.

Gigi lavorava come pianista per papà, che ne intuì prima di tutti il talento. Per me Gigi è un altro fratello e sono contento che suo figlio Luca, LDA, quest’anno approdi a Sanremo. Tiferò per lui perché noi figli d’arte siamo sempre massacrati, dobbiamo guardarci più dalle critiche che dagli elogi. E spesso le critiche non sono costruttive.

 

Lei però si è dedicato al lascito di suo padre senza distanziarsene.

Sicuramente. Il 5 gennaio gli intitolerò ancora un concerto al Trianon. E vorrei che scrivesse una cosa: chiedo alla Rai di produrre una fiction sulla vita di Merola come quella sui fratelli De Filippo. È stato l’ambasciatore della canzone napoletana nel mondo, l’artista che una sera, alla Casa Bianca, si è esibito al posto di Pavarotti che era giù di voce. Si congedò dal presidente Gerald Ford tenendolo per mano sulle note di “Anema e core”. “Tenimmece accussì…”. Lui, un ex ragazzino che scaricava le casse nel porto di Napoli. Fu un trionfo italiano, difatti sto lottando perché il Festival di Sanremo gli dedichi un premio.

 

E Napoli?

Non me ne parli. La mia famiglia è molto amareggiata. A casa di chiunque vada, trovo immancabilmente una foto o un cd di mio padre, eppure il Comune ancora ignora Mario Merola nella toponomastica. Non gli dovrebbero intestare un vicoletto, ma una piazza, per onorarlo come merita. Papà diceva che voleva essere ricordato dal popolo, e va bene, ma le istituzioni non possono dimenticarlo.

 

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