(foto Unsplash)

la lingua e la roba

Le prime testimonianze in italiano? Truffe, raggiri e insulti

Siegmund Ginzberg

Le parole, come le pietre, contengono stratificazioni geologiche. Così il volgare delle origini racconta il nostro carattere nazionale

Le parole, si sa, sono pietre. Come le pietre contengono stratificazioni geologiche. La nostra lingua sin dalle origini rivela forse alcuni nostri caratteri nazionali. Ad esempio, che non sempre i giudici sono al di sopra delle parti. Che proprietari e mezzadri, padroni e lavoratori, tendono a imbrogliarsi l’un l’altro, e, insieme, a non pagare le tasse. E che in ogni caso conviene star zitti. Sono solo alcune delle tantissime interpretazioni possibili dei testi dottamente discussi da Ludovica Maconi e Mirko Volpi in Antichi documenti dei volgari italiani (Carocci, 2022). A leggerli mi sono divertito un mondo. Ognuno li ha interpretati a modo suo, dicendo tutto e il contrario di tutto. 

Una messinscena giudiziaria? 

La più nota, e forse la più antica delle iscrizioni in italiano volgare è su un documento giudiziario. Dirime una disputa in tema di proprietà. Suona: Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte S(an)c(ti) Benedicti.. Quel che si legge nella pergamena viene in genere inteso come: “So che quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono, trent’anni le ha tenute in possesso il monastero di San Benedetto”. Il resto del documento è in latino. La frase in volgare ricorre nelle dichiarazioni di tre testimoni, i quali anziché in latino si esprimono nella propria lingua parlata. E’ chiaro che si tratta di una causa per usucapione. Intentata al monastero benedettino di Montecassino da un proprietario locale, tale Rodelgrimo di Aquino, che reclamava quelle terre come sue. Il monastero, per entrarne definitivamente in possesso, deve dimostrare di averle occupate per almeno trent’anni. Giudice e notaio erano monaci. E quindi masticavano di latino. Così come monaci erano pure i testimoni. Il dibattimento si svolgeva probabilmente in volgare. Ma poi veniva tradizionalmente verbalizzato in latino. C’è chi ipotizza che la scelta del notaio di trascrivere le testimonianze in volgare servisse a rendere chiara una volta per tutte la sentenza.  

Il documento, noto come Placito di Capua (placitum nel medioevo è l’atto che riporta una sentenza), ha una data precisa: 960. Fu verbalizzato dal notaio Adenolfo. Il giudice che aveva fissato la formula su cui erano stati imbeccati i testimoni si chiamava Arechisi. Tutti nomi longobardi. Nordico, piuttosto che campano, secondo i filologi, è l’uso dell’inizio della formula “sao”, che sta per “so”, anzi “so per certo”. Capua e dintorni erano in mano longobarda. Chi non fosse ammanicato probabilmente non aveva una chance. Il principe longobardo di Capua parteggiava per il monastero. Era sì una causa privata. Ma si trattava di estensioni importanti di terra, coinvolgeva interessi potenti.

Dopo aver pronunciato la loro testimonianza in volgare, i testimoni avevano giurato sul Vangelo. La causa si era conclusa con la promessa da parte di Rodegrimo, impegnativa anche per i suoi eredi, di non tornare mai più sulla questione e di accettare l’assegnazione di quelle terre al Monastero. Ma poco più di un anno dopo i principi di Capua dovettero nuovamente intervenire per confermare la concessione all’abbazia di alcune terre, comprese quelle di cui tratta il Placito capuano. Non è abitudine italica mettersi il cuore in pace quando sono in gioco tanti soldi. E’ il materialismo storico, bellezza!  Maconi e Volpi non trascurano l’ipotesi che l’intero processo fosse una messinscena. Altri placiti campani dell’epoca, ad esempio quelli di Teano e Sessa Aurunca, ripropongono lo stesso schema: un privato cittadino che rivendica terreni che poi, sulla base di testimonianze che confermano l’usucapione, vengono riconosciuti come proprietà benedettina. Cosa che ha portato diversi studiosi, filologi e storici del diritto a ipotizzare che si trattasse di cause “avviate non da un reale avversario, ma da un privato complice, per assicurare al monastero un giudizio pubblico e il relativo documento notarile”. Così fosse, la prima testimonianza linguistica in italiano sarebbe un caso di manipolazione della giustizia. Alle origini della proverbiale litigiosità del “condominio Italia” ci sarebbero quindi basse questioni di interesse, altro che nobili princìpi. 

Notai poco raccomandabili 

Non sarebbe l’unico esempio che collega gli esordi della nostra lingua alla furbizia. Dante era stato condannato ed esiliato da Firenze per “baratteria”, corruzione in pubblico ufficio. Pare ingiustamente: tutti sanno che la condanna era politica, o no? Il padre del nostra lingua intasa l’Inferno di barattieri, imbroglioni, profittatori. Gianni Schicchi de’ Cavalcanti viene collocato nella bolgia dei falsari per “falsificazione di persona”, cioè per essersi finto Buoso Donati il Vecchio. La vicenda sarà ripresa in una delle opere più divertenti di Giacomo Puccini, appunto il Gianni Schicchi, in cui il protagonista si sostituisce al defunto Buoso per dettare un falso testamento, di modo che le proprietà finiscano in mano alla propria figlia. Il pubblico non può che parteggiare per il simpatico imbroglione. Chi può resistere all’appello accorato di una figliuola che si rivolge al suo “babbino caro” perché la faccia sposare bene? Teniamo tutti famiglia, è l’altro tratto incrollabile dell’italianità.

Boccaccio dedica la prima novella del suo Decameron a un notaio, Ser Ciappelletto. E’ un genio della bugia e della falsificazione, uno che si vergogna di compilare atti notarili che non siano contraffatti. E’ specializzato nel raccontare frottole. Inviato in Francia da un altrettanto spregiudicato mercante a esigere vecchi crediti in Borgogna, Ciappelletto si ammala gravemente. Il suo capolavoro è confessarsi in punto di morte, riuscendo a farsi passare addirittura per santo. Resta in dubbio se, oltre al “santo e valente frate” che lo sta confessando, sia riuscito a imbrogliare anche il Padreterno. Ma la sua confessione non è una sfida gratuita ai sacramenti. E’ un atto di onestà, o di omertà che dir si voglia, un modo per “sistemare i fatti suoi e quelli dei suoi ospiti”. Se morisse senza confessarsi, li metterebbe nei guai. Si rende simpatico anche ai lettori. In politica sarebbe un candidato perfetto. 

Nell’età dei comuni, quella in cui matura l’italiano che conosciamo, chi scrive è spesso un notaio. Un saggio di Marco Codebò, che tratta di “Scomodi compagni di banco: scrittori e notai fra Boccaccio e Manzoni”, ci ricorda che nei Promessi sposi, a rappresentare un tratto del nostro dna, non c’è solo l’avvocato Azzeccagarbugli, ma anche quel notaio “furbo matricolato”, che non esiterebbe a far appiccare Renzo, anche se sa bene che è innocente. 

Per pagare meno tasse 

Decime, fitti, pigioni, tasse, libri dei conti, elenchi dettagliati di lasciti sono il tema dominante di buona parte delle altre primissime testimonianze di italiano scritto. Siamo sempre andati al sodo, alla “roba” come direbbero i personaggi di Verga. Con qualche ambiguità, sin dall’inizio, specie in fatto di tasse. In uno dei mosaici del Duomo di Casale Monferrato, risalente agli inizi del secondo millennio, e mirabilmente conservato, si vede un pescatore che porta sulle spalle un bilanciere con alle estremità da una parte un grosso pesce e dall’altra una cesta di vimini apparentemente vuota. La didascalia in volgare dice: QUALE LARCA DI SAN VAX. L’unica cosa indiscussa è che i No vax non c’entrano. La flat tax però forse sì. E’ stata alternativamente interpretata come “Qual è l’Arca di Sant’Evasio?”, oppure “Qua l’è [è qui] l’Arca di Sant’Evasio”. E’ indubbio che il riferimento è alla decima che i pescatori erano tenuti a versare alla chiesa del patrono della città. Ma non è chiaro se quella del pescatore sia una richiesta di informazioni o l’indicazione di dove va fatto il versamento. Le leggi tributarie sono sempre state farraginose.

Nella ricerca sulle “costanti e scelte di fondo”, di “lunga durata”, della storia italiana, Ruggiero Romano fornisce una documentazione impressionante su secoli di inganni reciproci tra proprietari e fittavoli, padroni e salariati, contribuenti ed esattori. Infinita è la lista dei modi in cui si esercita una pressione salariale sui lavoratori, dei modi in cui i ricchi cercano di pagare sempre meno e diventare sempre più ricchi a spese dei dipendenti, i mezzadri cercano di dare meno del dovuto al padrone, e viceversa, e chi è subissato dalle tasse inventa modi per evaderle. 

Tra i peccati elencati in un confessionale siciliano del 1300 c’è: “Si tegni pigni usufructuali; […] Si vindisti alcune cosa a terminu, pluy che non vali a manu; Si accatasti alcune cosa a vili prezu annanti lu tempu; […] Si tenisti lu salariu a quilli che ti serveru […]”. Più sottile invece l’inghippo in Toscana, dove “i lanaiuoli, a cui tornava a interesso, perché pagavano i loro ovraggi a piccioli, e vendeano i loro panni a fiorini, essendo possenti in comune, feciono ordinare al detto comune che si dovesse fare nuova moneta d’argento e nuovi quattrini, peggiorando l’una e l’altra moneta… acciocché ’l fiorino d’oro montasse”, scrive Giovanni Villani nel 1347. Venne la Peste. Non si trovavano più lavoratori. I sopravvissuti chiesero e ottennero, con gran disdetta dei datori di lavoro, aumenti dei salari. Che gli furono però portati via alla prima occasione, con la forza o con l’inganno. Ci risaremmo a giochi con la moneta se non ci fosse l’euro. La versione attuale della Peste si chiama Covid. La versione più recente dell’imbroglio si chiama inflazione. E hai voglia a rincorrerla…

Turpiloquio 

Il primo italiano è volgare di nome e di fatto. Ed è un fumetto, è il parlato che accompagna un’immagine. Traite fili delle pute, tirate figli di puttana, è la scritta che accompagna l’affresco nella basilica di San Clemente, non lontana dal Colosseo. Fu dipinto su un muro di sostegno eretto dopo il restauro della basilica devastata dalle soldatesche del duca normanno di Puglia e Calabria nel 1084. La scena è un dialogo a più voci. Rappresenta il miracolo di San Clemente che, trascinato al martirio dai servi del dispotico patrizio romano Sisinnio, si trasforma in pesante colonna di pietra. I servi sono indicati uno per uno col rispettivo nome. Hanno un bel pungolarlo con un palo (“FALITE DERETO|COLO PALO|CARVON|CELLE” [manteniamo i trattini verticali di separazione dell’accapo come riportati da Maconi e Volpi], fàgliti da dietro col palo, Carboncello), un bel cercare di trascinarlo con le funi (“ALBERTEL|TRAI”, Albertello tira), un bel venire apostrofati come fossero scansafatiche (“FILI|DELE|PU|T|E|TRA|ITE”, tirate dunque, figli di puttana). Sono servi. Non avrebbe senso rivolgersi a loro e insultarli in latino. In latino invece interviene il Santo miracolato a spiegare la scena: D|U|R|I|TIAM COR|DIS V(EST)RIS | SAXA| TRAERE | MERVI/S|TIS”, causa la durezza del vostro cuore avete meritato di trascinare pietre. 
Altro fumetto è quello del mosaico di Vercelli (oggi conservato nel Museo Camillo Leone) in cui si vedono un cavaliere bianco e barbuto combattere contro un altro guerriero nero, a torso nudo e scalzo. Entrambi sono armati di scudo e spadone. “FOL” dice la scritta in verticale a fianco del bianco, “FEL” quella che affianca il moro. Folle contro fellone? Buono, ma pazzo, contro malvagio? Grida di assalto, ingiurie che i due si scambiano? 
A me fa venire un’altra immagine enigmatica, il Duelo a garrotazos, la pintura negra di Goya in cui due rustici si affrontano a colpi di mazza. Sono impossibilitati ad arretrare, hanno le gambe affondate nella terra. Finirà solo quando uno dei due ammazzerà l’altro. Come faceva l’autore de Los desastres de la guerra a prevedere la guerra in Ucraina?

In ogni caso meglio star zitti

A contendere al placito di Capua il primato di antichità è un graffito nella catacomba romana di Commodilla, a margine di una affresco che ritrae la Madonna in trono, affiancata da un santo che poggia le mani sulla spalla di una matrona. Il santo è Adàutto, la matrona, a cui l’immagine è dedicata, si chiamava Turtura. Recita: “NON|DICE|RE IL|LE SE| CRITA |ABBOCE”. Gli studiosi si sono sbizzarriti nelle interpretazioni. Quella prevalente è che starebbe a dire: non dire quei segreti a voce alta. 

Quali segreti? E’ un suggerimento rituale, in cui si invita a non recitare ad alta voce la preghiera del Secretum, che andrebbe detta a bassa voce, par coeur come si direbbe in Francia, da dove proveniva l’innovazione liturgica? Sappiamo che al Papa non andava che a Costantinopoli si fosse autoproclamata imperatrice romana una donna. Per questo incoronò invece imperatore il capo di un popolo barbaro, i franchi, che si chiamava Carlo, poi Magno. Un’insinuazione, un pettegolezzo, sulla matrona raffigurata, di cui non sappiamo nulla? Emilia Calaresu passa in rassegna tutte le interpretazioni (“Un piccolo giallo enunciativo: la frase graffita nella catacomba di Commodilla”, in La dialogicità nei testi scritti. Tracce e segnali dell’interazione tra autore e lettore, Pacini 2022). E propende per la più semplice. Si tratterebbe di un avvertimento: taci o finisci nei guai. Sant’Adàutto finì martire perché non sapeva tenere la bocca chiusa in tempi in cui non conveniva proclamarsi cristiani ad alta voce.

Di più su questi argomenti: