facce dispari

Alfredo Accatino, le gioie di un cacciatore di outsider

Francesco Palmieri

Creatore di grandi eventi, ma anche figlio d'arte che continua a ricercare il talento nascosto: "Nella creatività non esiste alto e basso. Esiste solo la qualità"

Alfredo Accatino, romano, sessantadue anni, è un creatore di ossimori famosi, ossia quei grandi eventi ricordati a lungo ma di cui, a differenza dei gol decisivi o dei discorsi che fecero epoca, quasi nessuno torna a vedere i filmati: l’inaugurazione dei Giochi olimpici invernali di Torino 2006, il lancio della nuova Fiat 500, le cerimonie di apertura e chiusura dell’Expo di Milano del 2015. Per compensare la prima, Accatino ha sviluppato un’ulteriore attività, forse la prevalente, che non glorifica l’effimero ma lo contrasta: è un cacciatore di outsider, quei cugini delle “facce dispari” di cui la Storia ha tentato l’abolizione, un po’ con la complicità del Fato per chi crede al Fato, e molto con il contributo delle vittime poiché non credettero abbastanza in se stesse.

Outsider si può restare per l’eternità o nei confini della vita, come Van Gogh, oppure per secoli come accadde a Caravaggio fino alla riscoperta di Roberto Longhi. Accatino, che ha intitolato “Outsiders” la serie di libri che pubblica per Giunti, è figlio d’arte ma rifugge dalla prosecuzione, preferendo magari comporre un romanzo (“La linea e l’ombra”). Il padre Enrico fu pittore, fra i protagonisti della fiber art e divulgatore culturale nei programmi che impartiva la Rai del bianco e nero con pedagogia passata in proverbio: “Telescuola” e “Non è mai troppo tardi”.

Chi è un outsider?

Chi nasce nel posto sbagliato, sposa idee pericolose e spesso si distrugge da solo. Perdenti di talento macinati dalla Storia, innovatori che non ce l’hanno fatta. La nostra colpa è giudicare più in base alla notorietà che alla qualità intrinseca con cui qualcuno, anche da un cono d’ombra, modificò il flusso della storia dell’arte.

Qualche esempio?

La svedese Hilma af Klint, un soldo di cacio da molti giudicata pazza, che dipingeva tele gigantesche ispirate dalle sedute medianiche e che impose di tenerle nascoste per trent’anni dopo la sua morte. È stata la pioniera dell’astrattismo, ha preceduto anche Kandinskij. Fui il primo a parlarne in Italia e a New York il Guggenheim le ha dedicato una mostra tre anni fa. Oppure penso al cinese Sanyu, che è battuto all’asta a cifre da capogiro ma visse in povertà perché spese le energie a brevettare uno sport, il ping-tennis, pensando che lo avrebbe reso famoso.

C’è un “cupio dissolvi” negli outsider?

Spesso c’è una spinta autodistruttiva che porta all’uso di droghe, all’alcolismo o al suicidio. A Roma per l’ospedale San Giacomo sono passati Tancredi Parmeggiani, Schifano, Tamburini. Ci sono figure che hanno vissuto la condizione d’artista come una malattia, o incapaci di dialogare col presente hanno sviluppato la sensazione del fallimento. Oppure c’è la Storia che si accanisce su di loro: chi nasce in un posto infelice, chi è vittima di pogrom o persecuzioni. Pensiamo alla mostra nazista d’arte degenerata: di quegli artisti dopo la guerra ne saranno stati valorizzati una quindicina. Gli altri, i degenerati dimenticati, prima ebbero la vita devastata poi neanche la fortuna di poter lavorare. Per tacere di chi non fu esposto in mostra al ludibrio e quindi, mancando del bollino di “degenerato ufficiale”, restò nel limbo degli sfigati di serie b.

Eppure gli sconfitti affascinano più dei vincenti.

Mi fanno più simpatia. Spesso la sconfitta è l’elemento portante di una narrazione. Il dottor Zivago non deve rincontrare Lara. E nella mostra immersiva “Van Gogh Alive” tutti aspettavano il colpo di pistola con cui termina la vicenda.

Come si riconosce un outsider di talento?

La prima legge è questa: nella creatività non esiste alto e basso. Esiste solo la qualità. Può essere opera d’arte anche la cartellonistica, un tatuaggio o i manichini con cui negli anni ’40 si provava negli Stati Uniti la tenuta dei paracadute: alcuni sembrano dei Donatello. Sbarazziamoci all’opposto dell’ipocrisia al cospetto dei maestri: anche Picasso ha fatto brutti quadri mentre ci sono artisti che ne crearono uno solo, ma fu un capolavoro. Sbarazziamoci pure di un altro luogo comune: che l’antico sia per forza bello. Il Fauno di Pompei è straordinario, ma dei 24 bronzi appena scoperti a San Casciano alcuni sono belli, altri solo manieristi o davvero brutti, anche se ciò non sminuisce l’importanza storica del ritrovamento.

Perché invece di collezionare outsider non ha provato a esserlo lei stesso, oppure, con meno fascino, a diventare un pittore di successo?

Perché ricordo l’esperienza di mio padre, che fu un artista affermato. Non volevo essere inghiottito dall’arte nel suo stesso modo. Lui veniva dalla cultura contadina del Monferrato per cui era normale che impiegasse il figlio a dargli una mano in bottega, stendendo tele e colori. Questo mi plasmò uno spirito libero rispetto all’arte, privo del timore reverenziale che appanna l’acume. D’altra parte mi spaventò la sua esperienza totalizzante. Con mio padre sarò stato al parco tre volte, quando uscivamo assieme mi portava ai vernissage. Sì, mi presentò Bacon, ma io volevo giocare a pallone. Però tuttora mi commuovo quando penso che l’ultima facoltà che perse, con l’Alzheimer, fu quella di disegnare.

Ma il caso, alla fin fine, quanto conta per la fama? O c’è un disegno prestabilito?

Credo senz’altro alla casualità. Se per caso la famiglia Rothko fosse rimasta in Lettonia o la famiglia Warhol in Slovacchia, oggi Rothko e Warhol sarebbero due sconosciuti. La fortuna è importante, ma se non aumenti l’opportunità di esserne baciato, non arriverà mai per misteriose trame delle stelle.

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