Lo scrittore Carlo Fruttero fotografato nella sua abitazione di Torino mentre lavora con la sua macchina per scrivere (LaPresse)

IL RUMORE DEI TASTI

Ascesa e declino della macchina da scrivere, un fascino che il computer non potrà sostituire

Francesco Palmieri

Ispirava scrittori, editorialisti da pipa e veniva glorificata al cinema. Quelle usate da Montanelli, dalla Fallaci, da Brera sono diventate veri e propri cimeli. Invece è improbabile che il pc di celebri firme, con tasso di obsolescenza assai più alto e glamour ben più scabro, possa aspirare un giorno a monumenti o a venerabili bacheche

Mi permetto di ammettere un qualche grado di abilità nella battuta a macchina.
Jack Kerouac, “Vanità di Duluoz”

 

"All work and no play makes Jack a dull boy. All work and no play makes Jack a dull boy…”. Questo e soltanto questo batté per giorni e giorni sulla macchina per scrivere l’aspirante romanziere Jack Torrance, protagonista di Shining, mentre diventava pazzo nell’inverno all’Overlook Hotel con moglie e figlio, anche se molti ricorderanno meglio il sottotitolo della versione italiana che trasforma l’originale “All work…” nel proverbio nostrano “Il mattino ha l’oro in bocca”.

Un mantra della follia ripetuto decine di migliaia di volte in ogni possibile formattazione su centinaia di fogli A4, sfilati dal rullo di una Adler Universal 39 e impilati dalle dita prensili e smaniose di Jack Nicholson. Un mantra impossibile da sceneggiare se il film tratto dal libro di Stephen King fosse stato girato appena qualche anno dopo, quando i pc soppiantarono le macchine per scrivere. Perché la moglie sgomenta di Jack Torrance, ammesso che conoscesse la password del computer, avrebbe dovuto individuare il file della pazzia per aprirlo e scrollare giù giù con il cursore. Né forse lui, smorzata la furia dalla morbidezza della digitazione o dalle possibilità del copia e incolla, avrebbe dato sfogo alla stessa follia senza il riscontro fisico dei polpastrelli martellanti e dell’inchiostro impresso sulla carta dal tocco compulsivo.

 

Conobbe questa cinematografica gloria alla rovescia la macchina per scrivere nei suoi ultimi anni al servizio dell’umanità, mentre il numero degli affezionati via via si riduceva agli ostinati e nell’acustica degli uffici, delle redazioni editoriali e giornalistiche, degli studi professionali e dei commissariati si andava diradando il ticchettio che per virtù di qualche incanto neurologico, invece di turbarla, favoriva la concentrazione. Se moltiplicato nel fervido stanzone di un quotidiano locale o nazionale, l’ipnotico frastuono ispirava editorialisti da pipa quanto acerbi estensori di “brevi”, funamboli del commento sportivo e recensori tendenti alla misantropia. Allettò addirittura il musicista Leroy Anderson, che alla macchina per scrivere dedicò un concerto pure mimato dall’insopportabile bravura comica di Jerry Lewis. Passandoci sotto all’ora di punta, si sentiva mitragliare dal palazzo di una redazione un fragoroso ticchettio misto al “ding” dei carrelli, al trillo dei telefoni e al ronzio delle telescriventi, più o meno come si spandono dalle aule dei conservatori musicali gli incerti arpeggi di piano, le note saltuarie del fagotto e garruli fraseggi di flauto attraverso le finestre.

 

Non è soltanto culto passatista l’elogio del ticchettio perché è un fatto che la Olivetti Lettera 22 di Indro Montanelli è effigiata sulle sue ginocchia nella statua a Milano, che l’Adler di Oriana Fallaci è nella biblioteca della regione a Firenze, che una portatile di Gianni Brera si trova al Museo del Calcio a Coverciano mentre un’altra che gli era appartenuta passò in eredità a Gianni Mura, laddove è improbabile che il pc di celebri firme, con tasso di obsolescenza assai più alto e glamour ben più scabro, possa aspirare un giorno a monumenti o a venerabili bacheche. Chissà se fu anche per tale vanità pensante al postumo che Alberto Arbasino perdurò nella “innocua fissazione” di usare una vecchia macchina per scrivere elettrica, “bellissimo esemplare”, celiava Edmondo Berselli, “di una qualche età industriale”. L’autore accampava “la necessità di vedere modellarsi sulla carta anche la forma materiale del testo: una questione di spazi, di bianchi, di proporzioni. E forse anche di ritmo. Solo nell’ascoltare la scansione tambureggiante dei tasti e la visione dei caratteri che si imprimono sul foglio, Arbasino evidentemente è in grado di percorrere quegli spazi siderali che si dispiegano fra il post e il meta, fra l’ultra e il trans”.

 

Le macchine per scrivere modellavano lo stile poiché un eccesso di correzioni avrebbe compromesso la leggibilità della cartella obbligando alla ribattitura su un foglio nuovo, perciò prima il pensiero licenziava l’aggettivo dirimente o una frase pulita poi si picchiava sui tasti, anche (e soprattutto) per chi non era Arbasino. E fu proprio la “perfezione della forma dattilografica”, secondo Berselli, a rendere gustose quelle sue “storiette da anni Cinquanta e Sessanta”. E’ plausibile perciò l’aura irritante o ostile attribuita alle velociste della macchina dai professionisti della scrittura, che battevano quasi sempre soltanto con due dita. Il maestro di Voghera rievocava in Fratelli d’Italia “le dattilografone sfacciate nelle commedie del Trenta” con “un’aria da rubamariti”; Luciano Bianciardi nella Vita agra ricorse invece al diminutivo, osteggiando “le dattilografette” milanesi con un’associazione forse inconscia tra ticchettio e tacchettio: “Secche di gambe, piatte di sedere, sfornite di petto, picchiettano dalla mattina alla sera, coi tacchi a spillo, sugli impiantiti lucidati a cera, e poi su un pezzetto di marciapiede, fino alla fermata del tram”. Coprotagonista di quel romanzo è la macchina per scrivere, impignorabile malgrado le ristrettezze in quanto fonte di sostentamento e dunque amata per forza e odiata per la medesima ragione. Bianciardi la accomuna al tornio e alla prostituzione giacché sono tutti “un mezzo e uno strumento per procurarsi denaro”: “Quindi il metallurgico odia il tornio, io odio la macchina, forse più dei valvassini del marchese d’Ivrea, e la prostituta odia il coito”, mentre l’affetto del suo personaggio per la compagna Anna è scandito dalla pastasciutta e dalle dettature di traduzioni letterarie, la cui consegna entro date stabilite trasla l’urgenza dei conti domestici nell’aritmetica delle cartelle prodotte.

 

 

Su quella Olivetti sovraffaticata non potrà mai battere qualcosa come “Il mattino ha l’oro in bocca”. La povertà non permette pazzia. Neppure il fulmine di un più romantico amore tra scrittore e “dattilografetta”, quando lei ha il volto seducente di Audrey Hepburn nel film Insieme a Parigi e William Holden impersona uno sceneggiatore in difficoltà. La love story sboccia da un tappeto di fogli battuti e sparsi sul pavimento con il sottofondo complice del ticchettio, che riversa nella vita la vicenda immaginata sulla carta. Oppure, stesso sottofondo, c’è la coppia che scoppia prima dell’affrettato matrimonio nel film ipercitato Prima pagina, mentre Hildy Johnson/Jack Lemmon ammalato del mestiere compone il “pezzo” della vita e la promessa sposa, che pertiene all’archetipo delle infatuate redentrici, lamenta la trance professionale del cronista manifestata dal progressivo ritmo sulla macchina sotto lo sguardo arcigno del suo direttore, Burns/Walter Matthau, che funge da legittima carogna. Sequele di risentimenti e sentimenti, di amori e disamori che se fossero recitati davanti alla tastiera di un pc risulterebbero tutti improponibili al pari della scena fatale di Shining. Come una minigonna indossata salendo in una carrozza della Belle époque.

 

Fosse nato ai tempi dell’iPad chissà quale fine avrebbe fatto Gay Talese, che dal negozio dei suoi nel New Jersey ascese al New Journalism. E’ facile immaginare che sarebbe diventato ottimo sarto come il padre, cucendo abiti con la perizia e l’astuzia con cui invece cucì le sue storie. A schiudergli l’accesso all’università seppure in Alabama, dopo il rifiuto di dodici college più appetiti e vicini, fu la lettera di raccomandazione della sua insegnante di dattilografia (“la cui visione limitata ma entusiastica dei miei talenti”, avrebbe ricordato Talese, “rappresentava la più importante dichiarazione di fiducia che potessi mai sperare di ottenere dalla scuola locale”). Più tardi avrebbe assistito senza scalfitture al passaggio epocale della tecnologia nelle redazioni, al pari di Tom Wolfe che descrisse nel Falò delle vanità l’estinzione del fracasso nella sala della cronaca dove “ragazzi e ragazze dall’aria di vecchi lupi di mare sedevano alle tastiere”. Mancano ormai il fragore delle meccaniche, il “ding” dei carrelli e il rumore dei fogli sfilati perché le tastiere sono quelle dei primi computer. Producono “un rumore sordo come d’acciottolio”, “come se fosse in corso un immenso torneo di mahjong. I redattori, di ogni tipo, stavano curvi nella posizione canonica dei giornalisti di altri tempi. Ogni tanto, una testa si alzava, quasi riaffiorasse per respirare, e urlava qualcosa a proposito di interlinee, titoli o lunghezza di un articolo. Ma neppure l’eccitazione dovuta alla fretta poteva sopravvivere a lungo”.

 

Nell’iniziale transizione all’informatica già non si poteva più seguire a orecchio – figuriamoci adesso – il diagramma mentale di un collega, che un tempo lasciava intuire dalla velocità di percussione sulla macchina, dalla frequenza e durata delle pause, se l’articolo di quella sera veniva giù liscio o stentava alla nascita. Un’estrazione risoluta dell’A4 dal rullo poteva corrispondere al sollievo di una fatica terminata o al fastidio per l’ennesimo incipit infelice che nessuno avrebbe letto, perché volava come pallottola suicida nel cestino anticipando la sorte che gli avrebbe inferto un implacabile capocronista.

 

Fuori dalle redazioni il declino delle macchine per scrivere sarebbe stato più esitante e forse mai totale, persistendo nelle periferie produttive o nelle case di litigiosi condomini, i quali avrebbero continuato a indirizzare lettere agli amministratori del palazzo “in riferimento” o “facendo seguito”. Qualcun altro con diligenza incaponita avrebbe imbustato, fino alla diffusione delle e-mail, missive ai giornali in cui si ponevano, come notava Giorgio Manganelli, quesiti riguardanti l’immortalità dell’anima, il fascismo, l’aborto, i treni e l’amore a prima vista. Sarebbero sopravvissute, le Remington e le Olivetti, e sopravvivono scassate o restaurate, collezionate per estetica, prestigio o nostalgia, celate nei soppalchi o esposte all’ingresso di studi notarili minimalisti ma che vogliono ostentare durevoli genealogie professionali. Sarebbero sopravvissute nel cinema per sunteggiare, ne L’ora più buia, il carattere di Churchill che appena sveglio già col sigaro ma insonnolito sbrana la nuova segretaria perché fa troppo rumore sui tasti e non ha regolato gli spazi proprio come vuole lui.

Ma la macchina per scrivere sopravvive, oltre che per comprendere la Storia, per sentire la poesia in una brevissima intervista a Daniele Del Giudice, reperibile ancora su YouTube, in cui appare già chiaro che ha ormai imboccato l’involontaria transizione da uno stato della mente a un altro assai più misterioso e ineluttabile: “Non pensavo di essere uno scrittore. Quando morì mio padre… prima di morire mi regalò una macchina da scrivere e ho pensato: sarà quello che dovevo fare. Così, semplice… Voleva che io fossi uno scrittore. Quando mi ha dato questa macchina da scrivere, per me è stata una gioia. Mi piaceva il rumore dei tasti e… ed era… e questa macchina era la macchina che faceva i racconti. Io avevo pensato subito che era la macchina che faceva i racconti, non che li facevo io, ma che era la macchina per… scrivere”.

 

Parecchi, che non lo confesserebbero oppure lo hanno dimenticato, avranno pensato o sospettato la stessa cosa di Del Giudice quand’erano davvero giovani e inserivano il primo foglio bianco circondati da un mondo di oggetti oggi dismessi come la carta carbone, i posacenere ricolmi, i bocchini Bofil, i tagliacarte, i gettoni telefonici, le bombolette di gas per accendini, i bossoli della posta pneumatica e le possibilità forse mai realizzate di riempire quelle pagine con qualcosa che non fosse, a conti fatti, “Il mattino ha l’oro in bocca” ripetuto nelle innumerevoli formattazioni, che offrono l’illusione di cambiare mentre si perpetua sempre la stessa cosa. Anche quando pensiamo che è nuova perché adesso siamo seduti davanti all’ultimo MacBook Air, forse “all work and no play makes Jack a dull boy. All work and no play makes Jack a dull boy”.

 

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