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la coscienza di un figlio

Cent'anni dopo Svevo, torna centrale il rapporto fra la morte del padre e la verità

Antonio Gurrado

Nel libro più celebre dell'autore triestino, la scomparsa del padre diventa una faticosa contrattazione della verità, fra negazione e reinterpretazione capziosa. Ma il punto di svolta del rapporto genitore-autore arriva con Karl Ove Knausgård, dove l'autobiografia diventa tragedia

Lo abbiamo studiato alle superiori ma può esserci sfuggito il dettaglio: ne La coscienza di Zeno, un attimo prima di morire, il padre del narratore tira un ceffone al figlio, poi scivola sul pavimento. Zeno lo crede ancora vivo, lo risolleva e gli spiega che a costringerlo a letto non era stato lui ma il dottore; subito dopo però aggiunge: “Era una bugia”.

 

 Il velo della menzogna copre questo momento estremo e si estende fino alle successive ruminazioni di Zeno, persuaso di come “quello schiaffo che m’era stato inflitto da lui moribondo, non era stato da lui voluto”. La morte del padre diventa una faticosa contrattazione con la verità, fra negazione e reinterpretazione capziosa. “E’ un’autobiografia e non è la mia”, scrisse Svevo in una celebre lettera a Montale; la questione della credibilità è centrale nella trama, pur esclusa a priori sin dalla prefazione in cui lo psicoanalista dottor S. annuncia che vi sono accumulate “tante verità e bugie”, senza chiara distinzione.

Cent’anni dopo, tre romanzi autobiografici di successo offrono diverse prospettive sul rapporto fra morte del padre e verità. Il punto di svolta è Karl Ove Knausgård. Quando inizia a uscirne il romanzo fiume, trae forza dirompente dall’essere la vera storia della sua vita, senza reticenze o infingimenti. Guarda caso, il primo volume si intitola proprio La morte del padre. Le pagine più riuscite delle quasi quattromila complessive sono quelle in cui mostra il disfacimento della vita del padre alcolizzato attraverso la descrizione di come gli ripulisce la casa post mortem.

Era il 2009. Ma due anni dopo, quando in Norvegia esce l’ultimo volume dell’auto-saga, per metà è incentrato sulle proteste di uno zio, che non riconosce la verità nel resoconto. Non è vero, Knausgård senior non era alcolizzato. La casa non era così lercia. Soprattutto, le pulizie non le ha fatte Knausgård junior. E’ genuino lo smarrimento narrativo e umano dell’autore norvegese quando si accorge che la verità oggettiva perseguita per migliaia di pagine e suffragata da ricordi distinti, è contraddetta da una verità oggettiva altrui, suffragata da ricordi differenti. Ciò rende letteratura l’opera anziché stucchevole diarione; tutta la credibilità crolla e l’autobiografia diventa tragedia.

Non so se Knausgård abbia letto Svevo. So invece che non ha letto Knausgård Björn Larsson, che è svedese ma pure vive in Norvegia. Qualche mese fa Iperborea ha pubblicato Nel nome del figlio, una storia è molto semplice. Il padre dell’autore fa un’uscita in barca e muore. Tutto qui. Solo che Larsson si rende conto di non ricordare nulla dell’evento; il primo capitolo, che elenca “i fatti, direttamente dalla memoria”, è lungo una paginetta. Il resto è tutto congetture, supposizioni, ricostruzioni, rimpianti, ammissioni dolorose; la memoria però non contribuisce ai fatti, così che risultino falsate tutte le testimonianze che Larsson raccoglie sull’evento.

“La memoria è come il gioco dei dadi che facevo da piccola, si tratta solo di decidere se sia inutile o truccato”: avrebbe potuto scriverlo Larsson, lo ha scritto invece Veronica Raimo nel frizzate memoir finalista allo Strega, in cui tratteggia questo padre formidabile, il cui tono di voce fa apparire aggressive le frasi più dolci e che ha per refrain “Siamo arrivati al paradosso”. E’ un padre lievemente deformato dalla caricatura; eppure, quando si ammala e muore, viene ridotto all’oggettività, alla materia inerme cui la Raimo parla senza che il lettore sappia di cosa, senza che lui la senta. Poi viene volutamente esiliato dalla memoria: “Non volevo avere ricordi di quel corpo”. La memoria è censura ed elusione. Così si comprende perché il romanzo si chiami Niente di vero.

La Raimo è una confessa ammiratrice di Philip Roth, che alla letteratura ha regalato padri inverosimili e deformi, a cominciare da quello di Portnoy, inchiodato sul cesso da un’iperbolica stitichezza. Quando però nel 1991 Roth decide di raccontare la morte del padre, in Patrimonio, abbandona per una volta tutti i giochi di specchi fra realtà e fantasia, proiezioni e doppi dell’autore, sancendo nel sottotitolo: “Una storia vera”. Anche Roth parla al padre inconsapevole in fin di vita e il momento della morte si sfuma in una frase misteriosa: “Gli dissi cose di ogni genere che non era più in grado di sentire”. La storia vera, dopo centottanta pagine capillari, diventa indicibile rimosso. 

“Egli era morto e io non potevo più provargli la mia innocenza!”, geme Zeno quando l’infermiere gli comunica il decesso del padre. Non si sta riferendo solo al fatto – falso – che sia stato il medico e non lui a insistere per metterlo a letto. Lamenta un più generale fallimento nel tentativo di trovare giustificazioni agli occhi della persona che lo ha messo al mondo, colui che gli ha fornito l’inchiostro per scrivere la sua storia senza davvero perdonarlo che sia riuscita diversa da come se la aspettava. Contrattando con la verità, stiracchiandola dalla propria parte, il figlio cerca l’assoluzione. Ma la morte del padre è una condanna irreversibile, che nessuna menzogna riesce ad attenuare.