(foto Olycom)

il fiore del male

Sharon Tate e il massacro di Cielo Drive, un ricordo che non finisce mai

Francesco Palmieri

Sono passati cinquantatré anni dall'eccidio a opera dei seguaci di Charles Manson a Los Angeles. Così l’America chiuse gli anni Sessanta del “peace and love”

Ogni giorno, da cinquantatré anni, in qualche parte del mondo qualcuno ne scrive. Ogni agosto, come quello che s’è appena concluso, da cinquantatré anni se ne scrive di più. Se non è un cronista che annuncia rivelazioni, ecco un blogger, un fan, un morboso cultore del crimine che aggiungono un ulteriore strato di congetture, caricano online una foto o scovano un ritaglio. Sono carte e pixel di cuori e di spade perché – da cinquantatré anni – di lama e sangue è questo ricordo che non finisce mai dal 9 agosto 1969. La notte in cui, si disse, si chiusero gli anni Sessanta del “peace and love” in America (ossia dappertutto). Quando tre hippy agli ordini del rocker fallito e velleitario messia Charles Manson irruppero nella villa al 10050 di Cielo Drive dell’attrice Sharon Tate, ventiseienne moglie del regista Roman Polanski. Andarono con la consegna di massacrare chiunque trovassero in casa, forse solo perché ci aveva abitato il produttore discografico Terry Melcher, che aveva chiuso la porta in faccia a Manson.

Doveva, disse Manson, cominciare l’Helter Skelter, parapiglia epocale come quel gioco dei Luna park dell’epoca con lo scivolo a spirale su cui si viene giù tutti e che diede il titolo a un brano del “White Album” dei Beatles. E fu il massacro. Di Sharon, una delle donne più belle del mondo, e degli sventurati che la sorte offrì quella sera alla calibro 22 a canna lunga e ai coltelli degli assassini: morirono Jay Sebring parrucchiere di Hollywood, Wojciech Frykowski amico polacco di Roman e la sua fidanzata Abigail Folger, erede dell’omonima dinastia del caffè. Già che c’erano, prima di entrare i seguaci di Manson avevano ammazzato con quattro colpi di pistola Steven Parent, un diciottenne che era passato dal custode della villa per vendergli una radiosveglia e se ne stava andando con la macchina.

Cinque vittime più una: il figlio che Sharon avrebbe dovuto partorire un paio di settimane dopo, Paul Richard Polanski. Lo inumarono tra le sue braccia. Ogni giorno, da cinquantatré anni, in una prigione degli Stati Uniti qualcuno sta scontando la pena per quel massacro e per altri omicidi ispirati da Manson che lo precedettero o lo seguirono, tra cui maggiore impressione suscitarono quelli del proprietario di supermercati Leno LaBianca e di sua moglie Rosemary, uccisi nell’Helter Skelter del giorno successivo a Cielo Drive, nella Los Angeles dei divi cinematografici, i quali vissero terrorizzati le settimane seguenti comprando pistole, cani feroci e servizi di scorta. Chi erano i massacratori, chi andavano a colpire con tale spietatezza e perché. Solo in autunno gli investigatori ne sarebbero venuti a capo mentre arrestavano la “Manson Family” per incendi dolosi e furti d’auto nella Death Valley californiana.


Una notte d’agosto di 53 anni fa, tre hippy agli ordini del rocker fallito e velleitario messia Charles Manson irruppero nella villa e fecero una strage


Oggi nelle carceri americane gli adepti di Charlie coltivano ancora la prospettiva della liberazione condizionale, in numero assottigliato per il passaggio del tempo che lentamente li rilascia alla morte. Come è stato per il loro ex leader mai pentito di niente: Manson si spense ottantatreenne il 19 novembre 2017 nella Corcoran State Prison. Come è stato nel 2009 per Susan Atkins, stroncata da un cancro dopo aver battuto il record della donna con più anni trascorsi in un penitenziario californiano: trentotto. Fu lei che piantò più volte il coltello nel corpo di Sharon legata per il collo e ultima delle vittime a morire; fu lei che quando l’attrice implorò di risparmiarla per il figlio che doveva nascere rispose: “Zitta puttana, non me ne frega niente”. Fu lei a presentarsi in giudizio ridendo e cantando con due coimputate, lei che come altri adepti spiegò di aver ucciso per far piacere a Manson, fu lei a convertirsi dopo qualche anno di prigione al cristianesimo, a piangere davanti agli intervistatori che la visitavano convinta del perdono di Gesù e a ripetere versioni diverse del massacro. Lei fu, con un asciugamano intriso nel sangue di Sharon, e dopo averlo assaggiato, a scrivere sulla porta di casa la parola “Pig” che restò a scolorirsi nelle settimane successive ed era ancora ben visibile in una foto su Life di Polanski, tornato dall’Europa all’indomani della strage, seduto affranto all’ingresso.

E c’è ogni giorno, cinquantatré anni dopo, una donna che combatte contro la liberazione dei membri della “Manson Family” raccogliendo firme online per continue petizioni da inviare allo stesso indirizzo. Anche se in più di mezzo secolo tanti giudici e governatori si sono avvicendati e sono morti, l’ufficio è sempre quello: CA Board of Parole Hearings. La donna è Debra Tate, sorella minore di Sharon. Nessun governatore si è finora sentito di aprire il portone di un carcere contro la sua volontà, e lei ha fatto voto di perseguire la battaglia della mamma Doris, che guidò il movimento dei diritti delle vittime in California, e del padre Paul, già colonnello dell’intelligence americana morto nel 2005. Quando nell’85 il capo killer di Cielo Drive, Charles “Tex” Watson, presentò domanda per la libertà condizionale, il colonnello raccontò ai membri del Board of Parole come aveva scrostato lui stesso dal pavimento il sangue della figlia e chiese che quell’uomo non fosse mai rimesso fuori. “Never, never, never”, ripeté tre volte – e poi chi redasse il suo obituary sul Los Angeles Times lo avrebbe ricordato.

Pochi giorni fa varie testate, dal Sun al New York Post, sono tornate sui “Manson’s Secrets” riportando le dichiarazioni di Debra Tate. Secondo la sua convinzione, le vittime di quella setta di sballati furono ben più delle nove complessivamente accertate, forse davvero 35 come Charles si vantava con altri detenuti. Debra racconta di una mappa “in codice” delle Panamint Mountains schizzata su un foglio che le mandò Manson stesso, disseminata di croci che corrisponderebbero alle sepolture di altrettante persone. Scavi fino a questo momento sono stati autorizzati nel Barker Ranch, ultimo rifugio della comunità criminale. Né nel 2008 né nel 2014 vennero trovati resti umani, ma Debra lamenta che le esplorazioni furono condotte senza scandagliare in profondità. Risultano 12 i casi di scomparsa insoluti collegati a Manson e forse ha ragione il detective Cliff Shepard, che prestò servizio nella sezione omicidi di Los Angeles: “We may never know or identify all their victims”.


Cinque vittime più una: il figlio che l’attrice ventiseienne, moglie del regista Roman Polanski, avrebbe dovuto partorire un paio di settimane dopo


Sempre pochi giorni fa, cinquantatré anni dopo Cielo Drive, si è tornati a parlare della “eredità” di Manson: poca roba tra cui chitarre, vestiario e testi di canzoni ma dal valore potenziale elevato considerando il famelico mercato dei “murderabilia” (solo quest’anno sono stati battuti all’asta un ciclostile delle Brigate rosse e un orologio di Hitler: c’è sempre chi è disposto a spendere per le reliquie criminali). A contendere presso la giustizia di Los Angeles i beni al nipote di Charles, Jason Freeman, è spuntato Daniel Arguelles, un tizio di 62 anni il quale avrebbe appreso dalla madre morta nel 2020 di essere frutto di un’ora d’amore consumata con Manson nel gennaio 1959.

Siamo sicuri che gli anni Sessanta finirono quella notte sulle alture di Los Angeles? Sembra invece continuino proprio con la sua ossessiva rievocazione nel perenne presente della memoria collettiva, in cui si ripensa al massacro come fosse avvenuto ieri. Facendo di più generazioni una sola. Chi era adulto nel ’69 ricorda Sharon Tate assieme a Woodstock e al Vietnam, ma la ricorda pure chi era bambino e chi cinquantatré anni fa neanche era nato. Un trentenne e un ottantenne hanno sentito parlare, diffusamente o vagamente, della stessa tragedia crescendo e invecchiando mentre Sharon resta bellissima. E, come Biancaneve morta, sempre della stessa età. “Per dieci anni aveva inseguito la celebrità. Ora l’aveva raggiunta in soli tre giorni” scrisse il pubblico ministero del processo, Vincent Bugliosi, notando che tra la scoperta della strage e il seguente 12 agosto i film con l’attrice erano stati rimessi in cartellone in tutta l’America.


Oggi nelle carceri americane gli adepti di Charlie coltivano ancora la prospettiva della libertà condizionale. Manson è morto nel 2017


Cinquantatré anni dopo, Polanski ne ha compiuti 89 e questa estate anche di lui si è riparlato, perché prosegue il contenzioso legale per tornare negli Stati Uniti dove fu condannato per violenza su minore nel ’77. I suoi avvocati ora accusano un giudice di improprio accanimento e chissà che lui non riesca a rivedere Los Angeles, anche se certe macchie difficilmente si cancellano a prescindere dai tribunali. Nei mesi successivi alla carneficina di Cielo Drive, Polanski già sembrò elaborare il lutto a modo suo. Testimone d’eccezione Bruce Lee, che aveva coreografato Sharon nell’ultimo film, la spy comedy “The Wrecking Crew” con Dean Martin, e fu addirittura tra i sospettati del delitto dal regista mentre gli investigatori brancolavano nel buio. Sei mesi dopo, con i membri della “Manson Family” ormai in cella, Polanski si porta Bruce a Gstaad in Svizzera come personal trainer. Scorrendo tra le lettere alla moglie Linda, si trovano gli sfoghi del Piccolo Drago (costretto al viaggio per bisogno di soldi) disgustato dal “so-called jet set”, dalla dissipazione delle notti in discoteca e da uno stile di vita opposto al suo. Finché, stremato, non si mette a letto con la febbre e s’alza solo per dare lezioni a un allievo che paga benissimo. Il 20 febbraio 1970 Bruce scrive del fresco vedovo che “Roman, if not skiing, is always after some girls”.

Chi ha guardato con poesia a quel ’69 dove finiva tutto, e invece non finisce mai, è Quentin Tarantino nel film “C’era una volta a… Hollywood” e nel romanzo dallo stesso titolo. Riscrive l’inaccettabile realtà della vicenda con una conclusione che vendica l’orrore, perché se è vero che gli storici devono rimettere i tasselli a posto, è vero che agli artisti è lecito ricombinarli secondo propria verità. Su Manson, Tarantino ha ragione: altro che carismatico messia. “I suoi accoliti non avevano idea di quanto Charlie volesse essere una rockstar. Di quanto bramasse la fama, il successo e il riconoscimento altrui… Credevano che Charlie avesse un fine superiore, perché era quello che lui diceva loro, e loro gli credevano”. Uno sfigato, un manipolatore di piccole scappate di casa invasato dalle tribolazioni criminali.


Polanski sembrò elaborare il lutto a modo suo, sei mesi dopo in Svizzera con Bruce Lee come personal  trainer. Da Tarantino un film e un romanzo


Cinquantatré anni dopo, di quelli che gli credettero fino alle estreme conseguenze sono rimasti in cinque: 1) Bobby Beausoleil, cui potrebbe essere nuovamente fissata l’udienza per la libertà condizionale nel 2023. Il 27 luglio ’69 uccise il musicista Gary Hinman su ordine di Manson dopo giorni di torture per questioni di soldi e col suo sangue scrisse “Political Piggy” su una parete di casa; 2) Leslie Van Houten: alla sua liberazione si è opposto nella primavera scorsa il governatore della California Gavin Newsom, malgrado il parere del Board of Parole. Lei era nel drappello che macellò i LaBianca e chiese aiuto a “Tex” Watson per pugnalare Rosemary, su cui furono contate 41 coltellate. Al termine dei delitti si fece la doccia, si rifocillò con formaggio e cioccolata trovati in frigo, coccolò i cani delle vittime e prese un ricambio tra i vestiti della signora; 3) Bruce McGregor Davis, ultimo “no” alla libertà condizionale l’8 luglio. Fu coinvolto nell’omicidio Hinman e uccise assieme ad altri il cowboy Donald Shea, di cui furono trovati i resti solo nel ’77 perché Davis non agevolò mai le ricerche. Anche lui disse di avere agito “to please Charles Manson”; 4) Patricia Krenwinkel: dopo l’udienza del 26 maggio scorso potrebbe essere rilasciata se il governatore non rovescerà la decisione del Board. Partecipò sia all’assalto di Cielo Drive sia a quello dai LaBianca. Infisse un forchettone da cucina nel corpo di Leno e v’incise la parola “War”. Nelle petizioni online contro la liberazione dei detenuti, Debra Tate osserva di Patricia: “Per anni questa donna rise sugli assassinii in tribunale e non manifestò nemmeno un po’ di rimorso”; 5) Charles “Tex” Watson, ultimo “no” alla sua liberazione il 15 ottobre scorso, è l’uomo che con Susan Atkins affondò il coltello nel corpo di Sharon e del nascituro per 16 volte, lo piantò per 52 in quello di Frykowski, gli sparò due proiettili e lo colpì 13 volte con il calcio della pistola. Per farla breve sparò e accoltellò tutte le vittime di Cielo Drive e di casa LaBianca per un totale – calcolato da lui stesso – di cento pugnalate. In carcere è diventato padre di quattro figli.

Ora, mentre terminate quest’articolo, qualcuno da qualche parte del mondo ne sta scrivendo o leggendo un altro sullo stesso argomento o guarda un video su YouTube e partecipa a una chat su Cielo Drive. Cinquantatré anni dopo. Appena ieri.