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Le case dei libri non sono di carta - 5

L'Emeroteca-Biblioteca Tucci. L'archivio mondiale della stampa periodica

Francesco Palmieri

La sala di Napoli è nata per uso dei corrispondenti nel monumentale Palazzo Vaccaro della Posta centrale. La sua storia intreccia Matilde Serao, Robert Capa e oltre diecimila collezioni in circa 300 mila volumi 

Mio caro Einaudi, a Napoli c’è nel Palazzo della Posta una Emeroteca assai ben fornita e che rese anche a me buoni servigi quando scrissi la mia Storia d’Italia dopo il 1871. Questa Emeroteca era sussidiata dal ministero dell’Istruzione, ma dal 1949 non riceve nulla, e per ciò languisce. Io ti prego vivamente di accogliere la preghiera che i giornali hanno fatto a te ed a me per questo intervento benefico… Il desiderio sarebbe di ottenere il sussidio del 1950; ma questa domanda può sembrare indiscreta e perciò la richiesta si restringe al 1951”. È la lettera che il 13 ottobre di quel ’51 Benedetto Croce indirizza al presidente della Repubblica, il quale interviene immediatamente a favore dell’istituzione napoletana.

 

Scrive una settimana dopo, il 20 ottobre: “Mio caro Croce, sono lieto di comunicarti che il ministero della Pubblica istruzione ha subito disposto un sussidio straordinario di L. 200.000…” cui s’aggiungono 200.000 lire per l’acquisto “del materiale librario indispensabile alla sua attività” e altrettante per “far rilegare quell’altro materiale più bisognevole di riparazioni”. Un totale di 600 mila lire grazie all’intercessione del capo dello Stato, “lieto di aver potuto fare cosa gradita a te e doverosa per la tua città”.

 
È malgrado l’incostanza dell’interesse pubblico, che per uno o più anni concede fondi e un altr’anno li ritoglie, è tra i ritardi delle erogazioni che quando vengono sollecitate hanno il sapore delle elargizioni, che l’Emeroteca-Biblioteca Tucci di Napoli, oltre un secolo di storia, è sopravvissuta fino a oggi.

 

Settantun anni dopo quel carteggio la situazione non è migliorata, anzi peggiora perché è rimasta la medesima ma senza Croce e Einaudi. Nota al di là di Napoli per le ricerche che vi hanno svolto studiosi internazionali di varie università, dal Canada alla Gran Bretagna, dall’Australia al Giappone, l’Emeroteca-Biblioteca Tucci è poco conosciuta presso il pubblico nazionale anche più colto e pochissimo lo è la sua storia. Dire che è unica non è, in questo caso, eccesso d’enfasi.
Non c’è forse altro luogo dove si perpetui ancora il connubio tra il giornalismo e le poste, perché l’Emeroteca-Biblioteca Tucci è amministrata in totale autonomia dagli eredi del Sindacato dei corrispondenti dei giornali ma è ospitata nel monumentale Palazzo Vaccaro della Posta centrale, realizzato nel 1936 e al tempo definito “il più grandioso di tutto il mondo”: 34 mila metri quadri e 135 metri di diametro. Ed è stato, in misura però sempre più avara, il personale distaccato dalle Poste a prestare ausilio alle attività dell’istituzione fondata a Napoli nel 1907.

 

Fu la camorra, ebbene sì, che per eterogenesi dei fini contribuì alla nascita del Sindacato dei corrispondenti e dell’Emeroteca-Biblioteca (chi scrive è certo che ogni avveduto lettore colga l’ironia: questa parentesi non è per lui). Nel giugno afoso del 1907, per seguire gli sviluppi del caso Cuocolo, che sarebbe diventato il primo maxi-processo della storia italiana, i grandi giornali inviarono a Napoli firme autorevoli che per il proprio lavoro quotidiano dipendevano dagli uffici del telegrafo, collocati dal 1856 nel più bell’edificio cinquecentesco cittadino: Palazzo Gravina in via Monteoliveto. L’intercessione dei giornalisti napoletani presso l’amministrazione postale consentì ai colleghi venuti da Milano, Roma, Torino, Bologna, Palermo, Genova e Firenze di sistemarsi in una saletta ripulita attigua a quella della ricezione telegrammi, che il caporedattore del Mattino, Ernesto Serao, avrebbe ricordato anni dopo come ingombra di “scartafacci e vecchi macchinari, che vi si stipavano tra muffe e ragnatele da decenni”.

 

Fu costituito un Sindacato dei corrispondenti, sul modello di quello della Sala stampa di Palazzo San Silvestro a Roma, che qualche mese dopo ottenne i locali di un ammezzato già utilizzato come ripostiglio per pacchi e lettere destinati al macero. Si trovava dirimpetto a Palazzo Gravina, sullo scomparso Caffè Molaro, che tuttora sopravvive nelle citazioni come luogo dei primi convegni amorosi tra il poeta Salvatore Di Giacomo e la futura moglie Elisa Avagliano. Con meno romanticismo, Serao una trentina d’anni dopo rammenterà quell’ammezzato come “una specie di grotta di Betlemme”. Soltanto dal 25 giugno 1913 il Sindacato, e l’Emeroteca che si andava costituendo, ottennero cinque locali arredati e una sala per la consultazione pubblica gratuita al primo piano di Palazzo Gravina, mentre le collezioni crescevano grazie alle donazioni, la più importante quella dell’avvocato Vincenzo Riccio, ministro delle Poste nel primo gabinetto Salandra.

 

Come sapeva la giovane telegrafista Matilde Serao, che sbarcò il lunario con questo lavoro prima di scoprirsi raro talento e infaticabile attitudine per la scrittura, i giornalisti senza le poste sarebbero stati come leoni senza denti. Né il telefono era un’alternativa. Ricordava l’omonimo di Matilde, Ernesto, che ai princìpi del Novecento le comunicazioni telefoniche disponevano di “un unico sparuto e tremolante filo, che si paralizzava al minimo stormir di vento” ed era occupato diverse ore al giorno dai “privilegi” della Stefani e dalle segnalazioni di borsa. Commuove per attualità (o per inattualità) il discorso con cui nel 1917 il nuovo titolare del dicastero delle Poste, il penalista calabrese Luigi Fera, inaugurava l’ampliata Sala stampa-Emeroteca: “Posta e giornale non possono vivere una vita disgiunta. Non sono essi associati a una comune e grande opera di civiltà? Non mirano essi a un unico fine che è quello della più vasta diffusione delle notizie e della cultura?”. 

 

Fu nel 1936 che l’istituzione si spostò a Palazzo Vaccaro, dove è tuttora attiva avendo condiviso le buone e le cattive sorti del faraonico edificio modernista (che costò la formidabile somma di 28 milioni dell’epoca): dalla bomba sganciata nel primo attacco delle “fortezze volanti” americane su Napoli, il 4 dicembre 1942, che danneggiò l’emeroteca e uccise un impiegato, alla mina nazista a scoppio ritardato che il 7 ottobre 1943, quando ormai i reparti della Wehrmacht erano lontani, esplose in corrispondenza dei saloni aperti al pubblico provocando trenta vittime e più di ottanta feriti. Robert Capa si trovò lì a documentare lo scempio.

 

Napoli non è Montréal, dove in mancanza di molte altre memorie urbane certe visite guidate si dipanano fra gli androni dei palazzi d’epoca, eppure è una pena che almeno un rapido giro non porti qualche turista nell’edificio di Giuseppe Vaccaro, l’architetto bolognese autore di questa “grandiosità” secondo Luigi Barzini jr, o di questa insolenza secondo Ugo Ojetti (che bollò la facciata monumentale come “un costume da veglione”).
Il tesoro dell’Emeroteca-Biblioteca Tucci è all’ultimo piano: oltre diecimila collezioni di periodici italiani e stranieri – il più antico del 1648 – raccolti in trecentomila volumi, di cui circa duecento unici al mondo. E poi 45 mila libri comprendenti incunaboli, cinquecentine e secentine cui s’aggiungono stampe, manoscritti, bandi giuridici e postali, lettere autografe di uomini di governo, artisti e scrittori degli ultimi quattro secoli, rare cartografie nonché la collezione dei centoventi manifesti futuristi.

 

Fra i titoli più importanti la prima traduzione italiana del “De architectura” di Vitruvio del 1521 e numerosi trattati giuridici in piccola parte (per diciottomila pagine complessive) digitalizzati, come il “De jure prothomiseos perutilis” di Matteo D’Afflitto del 1539, l’opera postuma di Bartolo da Sassoferrato “In Infortiatum” del 1561 e il “Syluae nuptialis” di Giovanni Nevizzano nell’edizione 1573 (messa all’Indice per sospetto luteranesimo e di cui una sola altra copia a Napoli, se non è stata rubata, si trova nella Biblioteca dei Girolamini). La Tucci vanta anche una propria attività editoriale e l’organizzazione di mostre e convegni, malgrado si dibatta tra le incertezze e le ristrettezze finanziarie di sempre. Oggi può contare solo su alcuni contributi erogati dal ministero della Cultura, dalla Camera di commercio e dall’Ordine dei giornalisti della Campania, mentre l’amministrazione comunale ha sospeso il sostegno dal 2019 per il dissesto finanziario della Giunta e la Fondazione Banco di Napoli non ha versato la quota associativa per il sesto anno consecutivo.

 

Eppure nel 2021 il patrimonio dell’Emeroteca si è arricchito di 125 periodici e 287 libri, acquisiti sia grazie al decreto Franceschini sia per una congrua donazione dell’antiquario parmense Ivo Ferraguti.
A ricorrere alla Tucci, l’anno scorso, sono stati i ricercatori degli atenei di Toronto, Varsavia, Glasgow, Parigi, Milano, Torino, Roma, Viterbo, Foggia e Napoli oltre a numerosi privati: studenti, professionisti, cittadini che hanno fruito gratuitamente della consultazione.
L’antico patto tra le Poste e i giornalisti, tra i giornalisti e i lettori si prolunga centoquindici anni dopo la fondazione del Sindacato corrispondenti. È forse nei saloni di Palazzo Vaccaro, più che al Caffè Gambrinus, che si palpa la persistenza di quella Belle époque napoletana in cui giornalismo, letteratura e arte si confusero in una proficua miscela. All’entrata del Palazzo una lapide affissa nel 1981 ricorda i dipendenti postelegrafonici di fama come la Serao (e un busto bronzeo di Matilde vigila sui locali dell’Emeroteca), Rodolfo Falvo (il musicista di “Dicitencello vuje”), Giovanni Ermete Gaeta alias E.A. Mario (autore della “Leggenda del Piave”, “Balocchi e profumi”, “Tammurriata nera”), il poeta dialettale Arturo Trusiano.

 

Singolari figure ebbe alla guida l’Emeroteca: oltre al giornalista del Mattino Vincenzo Tucci, cui è stata intitolata, basti dire del suo primo presidente Nicola Daspuro: poliedrico leccese, terminò la carriera dedicandosi con successo all’imprenditoria edile dopo essere stato rappresentante della Casa Sonzogno per l’Italia meridionale, librettista d’opera, e se di cento cose se ne dimenticassero 99 una non si potrebbe. Quella di avere scoperto Enrico Caruso e averlo lanciato nella lirica quando nessuno scommetteva un soldo sul suo talento, neppure Sonzogno, il quale rinfacciò a Daspuro di avergli rifilato un baritono piuttosto che un tenore.

 

Successore di questa tradizione è il giornalista Salvatore Maffei, novantaquattro anni di cui cinquantadue alla presidenza dell’Emeroteca-Biblioteca Tucci. Quando ne assunse la guida, nell’aprile del ’70, ereditò 330 collezioni incomplete di giornali e riviste e un migliaio di libri. L’incremento alle dimensioni attuali, senza negare il contributo occulto di san Gennaro, è stato frutto della dedizione del personaggio, della dialettica difficile (ma è un eufemismo) con le istituzioni locali, della tessitura di relazioni con interlocutori privati come l’antiquario Ferraguti che hanno finito per innamorarsi della Tucci.

 

Ermanno Rea, che fruì dell’Emeroteca per scrivere la sua opera più conosciuta, “Mistero napoletano”, dipinge nel libro un ritratto di Maffei: “Ha faccia di mastino, una rude gentilezza e il non velato orgoglio di essere com’è. Da alcuni anni è diventato direttore dell’emeroteca; da ammasso informe di carta stampata, aperto a scorribande di vandali più o meno acculturati, l’ha trasformata in luogo di patrie memorie schedate, ordinate e vigilate con animo prussiano”, perché “la carta è viva, la carta è umana, esige il massimo rispetto”, aggiungeva.

 

Ammalato di giornalismo, che se fosse un virus per molti portatori più recenti sembrerebbe asintomatico, Maffei ha anche donato all’Emeroteca l’anno scorso un inedito carteggio tra Mario Missiroli e Floriano del Secolo: 35 lettere su cui è stata realizzata una mostra-convegno e che sono raccolte in un volume in corso di stampa. In una pubblicazione precedente l’Emeroteca aveva omaggiato la memoria di Giovanni Ansaldo, cui è stata dedicata una sala dove sono collocate le pregiate librerie che i suoi eredi donarono alla Tucci. È sottile ma non si spezza mai, quel filo col passato.

 
P.S. Poiché un cronista ha l’obbligo di dirla tutta, e abbiamo aperto con la benemerita lettera di Croce, non va taciuto che essa si chiudeva col seguente capoverso: “Ti accludo un ritaglio del Giornale di Sicilia preso nell’Emeroteca”. Don Benedetto insomma, ancorché giustificato dal colendissimo destinatario e dagli scopi della missiva, aveva commesso un peccatuccio di forbici che il “mastino Maffei” avrebbe mal sopportato.


  

“Illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta”. È la “Biblioteca di Babele” per Borges. Per il Foglio, le biblioteche  sono luoghi da scoprire, sono la storia e la cultura di chi le ha edificate e di chi le vive ogni giorno. Abbiamo affidato ai nostri scrittori un viaggio del cuore alla scoperta delle più belle biblioteche italiane.

Il 13 luglio abbiamo pubblicato “Leggere nella casa di vetro” di Claudio Giunta,

il 20 luglio “Il granaio delle Scienze” di Marco Archetti,

il 27 luglio “La tessera numero 54 sono io” di Paolo Nori,

il 3 agosto “Libri scampati alla battaglia” di Gaia Manzini.

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