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Spettacolo

L'esperimento della coreografa Blanca Li: balla con me nel metaverso

Fabiana Giacomotti

Al festival di Spoleto si vive l'immersione nella realtà virtuale. Un racconto surreale tra abiti chic, salti nel vuoto e gomitate

No, ma la rabbia. La rabbia, e anche un po’ l’allegria, di vedere all’opera la scissione fra mente e materia, di assistere allo spettacolo dei tuoi sensi che fanno a pugni con il raziocinio e la tua preziosa Mente con la M maiuscola, mentre stai lì a salire e scendere scale immaginarie con il casco 3D, i sensori ai polsi e alle caviglie e lo zainetto con la batteria sulla schiena. Durata trentacinque minuti e poi tutto si esaurisce rispedendoti nella realtà sensibile come la zucca di Cenerentola trainata dai topini che, adesso lo so, ha vissuto anche lei un party virtuale come quello organizzato da Blanca Li che è la grande attrazione pop di questo Festival dei due mondi di Spoleto. Chissà di che cosa si facevano ai tempi di Charles Perrault, dopotutto pare che a Versailles non risparmiassero sulle atropine. 

 

Il ritorno nella realtà sensibile è come la fine della zucca di Cenerentola trainata dai topini che, adesso lo so, ha vissuto anche lei un party virtuale

 

“Le bal de Paris”, “spettacolo immersivo di realtà virtuale griffato Chanel” come recita il programma di sala, sulla copertina una coppia che balla con maschere digitali da cervo (lui) e antilope (lei), vaga reminiscenza kubrickiana, offre fino al 10 luglio sei rappresentazioni al giorno e coreografie che si ispirano invece al Baz Luhrmann di “Moulin Rouge”, da cui sono stati certamente tratti anche i colori saturi di tutta la messinscena. Il lato divertente è che puoi partecipare all’azione anche tu, perfino ballare, benché in numero massimo di dieci. Qualche ora dopo l’esperienza la stessa Blanca Li, nata Blanca María Gutiérrez Ortiz, coreografa di molti balletti del Met e di tutti i film di Pedro Almodóvar in cui, forse vi sarà sfuggito, si balla parecchio, mi spiegherà perché. Un po’ lo intuisco dopo la bardatura (quindici minuti, scannerizzazione compresa, “tienes los brazos abiertos por favor”), all’ingresso della sala prove del teatro Gian Carlo Menotti recintata con una ventina di barre di legno da danza. 

 
Con i miei nove compagni vivrò un’esperienza virtuale ma ben protetta, limitata, casomai rischiassimo di andare a sbattere contro le colonne che delimitano davvero la sala o finissimo per sporgerci dalle finestre. Dunque, dobbiamo essere necessariamente in pochi: ci tocca essere controllati costantemente dagli operatori che siedono oltre le barre, di fronte ai computer, e dai ballerini veri che interpretano la storia d’amore che dà il titolo allo spettacolo, contrastata quel tanto che basta a rendere ancora più evidente la fragilità della sceneggiatura.

 

“In trentacinque minuti non potevo approfondire molto i caratteri”, constata a domanda l’autrice. Oddìo, volendo, in due paginette scarse Alba de Céspedes costruiva fortezze poderose di pensiero e di dialogo e certamente avrebbe trovato anche il tempo per ballare, ma dopotutto siamo qui per divertirci, no? 

 
Non è la prima volta che la realtà immersiva, in faticosa evoluzione ma comunque più interessante di quel pietoso metaverso su cui vanno esercitandosi alla meno peggio tutti i brand della moda, approda in Italia. Oltre alla sezione dedicata da qualche anno alla Mostra del cinema di Venezia, VR Expanded, organizzata all’isola del Lazzaretto vecchio dove comunque si recano in pochi perché sono tutti impegnati a inseguire gli attori in carne e ossa al Lido (lo scorso anno vinse Blanca Li proprio con questo spettacolo, non ne parlò quasi nessuno, adesso al bar Tebro gli spoletini si lamentano di dover ospitare una performance già vista altrove “non come ai tempi di Menotti quando era tutto in anteprima”), oltre a tutto ciò da qualche mese una folla costante di visitatori della Biennale Arte fa la fila al padiglione della Grecia per assistere alla rappresentazione 3D dell’“Edipo a Colono” di Sofocle, che mi permetto di dubitare la maggioranza abbia mai anche solo incrociato sui libri di scuola.

 

Anche lì molte maschere di animali ma, visto che si tratta di arte impegnata, animali da cortile e la realtà disperata di un campo rom alla periferia di Atene, “reo innocente di nomadismo atavico come innocente era Edipo” secondo l’interpretazione della film maker Loukia Alavanou che firma il progetto e che però per l’architettura del padiglione non ha voluto spazzatura e copertoni sui tetti ma si è dichiaratamente ispirata “alle cupole del Pantheon e alle geodesic domes di Bucky Fuller”. Insomma senza badare a spese come è peraltro intuibile dall’elenco degli sponsor affisso all’ingresso. Avevo assistito alla rappresentazione nei primi giorni di apertura e ne ero uscita con il magone per quello scempio di periferia, così simile all’Aurelia capitolina andata a fuoco l’altro giorno, bombole del gas comprese, e un vago senso di nausea per via della poltrona rotante a cui mi avevano attaccata per seguire da presso il volo iniziale degli avvoltoi, qualcosa che chiunque di noi ha sognato un giorno o l’altro di fare, accoccolandomi poi vicino a una carcassa indefinita per assistere in presa diretta al pasto.

 

Un guardaroba favoloso da cui scegliere un abito da sera Chanel premendo un bottone. A rue Cambon hanno disegnato capi ad hoc 

 

Mi era sembrato perfino di sentirne l’odore rivoltante: un fenomeno di parosmia, in buona sostanza un prodromo di quello che avrei sperimentato al “Bal de Paris” dove i personaggi sono invece tutti esteticamente attraenti e sottili, insomma politicamente scorrettissimi che è già un divertimento in sé, e soprattutto elegantissimi, ospiti compresi. Al termine della scannerizzazione, infatti, mi sono trovata in un guardaroba favoloso da cui ho potuto scegliere un abito da sera Chanel premendo un bottone. Blanca Li ha lavorato con Karl Lagerfeld, da rue Cambon si sono messi subito a disposizione disegnando una ventina di capi ad hoc. “Volevo che gli abiti si muovessero come fossero reali”. Rispetto a quando tentai un’operazione simile per una mostra della Rai, otto anni fa, per la quale nutrivo comunque ambizioni molto più contenute tanto che mi sarei accontentata di far indossare virtualmente due costumi di Mina e di Raffaella Carrà ai visitatori perché potessero fotografarseli addosso, la tecnologia si è evoluta parecchio.

 

Quando mi si para davanti un motoscafo Riva per portarmi all’isola incantata, faccio un salto per evitare di cadere nell’acqua che non c’è 

 

Benché Guido Geminiani, chief operating officer di Impersive, società milanese che in questi ultimi anni ha fornito ai buyer e ai referenti più importanti di brand come Gucci e Prada esperienze immersive e para-tattili, dica che sia altrettanto costosa e di fruizione ancora largamente minoritaria persino per ragioni di tempo (Luigi Gubitosi, allora dg, mise comunque il veto). 

  
Lo scanner di Blanca Li mi ha assegnato il muso di uno scoiattolo; l’abito Chanel, color porpora, si muove graziosamente mentre cammino. Se provo a toccarlo le mani vi scompaiono dentro, modello fantasmino Casper: è un gioco, mi dico. Tre secondi dopo, si schiude una porta ed entriamo al ballo. Ve la faccio breve, perché il punto è un altro: ed è che nonostante ogni minuto mi scontri con il mio vicino in un clangore di ferri da capitani rinascimentali al palio, e più volte senta chiaramente i bailarines scambiarsi informazioni, quando lo scenario virtuale cambia e mi si para davanti un motoscafo Riva per portarmi all’isola incantata in mezzo al lago, che peraltro sembra casa perché è modellata sull’Isola Bella del Lago Maggiore, per salire a bordo faccio un salto per evitare di cadere nell’acqua che non c’è. Come non c’è il Riva.

 

So benissimo che la brezza della traversata proviene da un ventilatore che ho scorto in un angolo. Però salto, mi godo il vento e le ranocchie con la coda da sirena che danzano fra i fiori di loto, mi chino per evitare un ramo troppo basso, mi tengo salda alla barra, che so benissimo essere tale, una barra per i plié, per non rischiare troppi scossoni quando salgo sul trenino che mi riporterà a Parigi, stringo mani vere quando un tipo con il muso da bulldog e lo smoking, che al tatto capirò essere una signora (il virtuale è molto lassista sul genere vestimentario), mi invita a ballare il valzer. Faccio tutte queste cose di istinto, mentre la testa mi sussurra continuamente che sono scema. 

 
L’istinto pare davvero più forte della ragione, come peraltro scrivono anche i cattivi scrittori da circa un millennio. E se i sensi sono fallaci, nulla come la realtà virtuale, anche nella fase embrionale che stiamo vivendo adesso, dimostra quanto avessero ragione Cartesio e Parmenide che aveva ancora meno mezzi di lui per provarlo. Ero, siamo, tutti realisti ingenui, come diceva Wilhelm Windelband quando teorizzava che il mondo non sia affatto simile a quello che percepiamo con i nostri sensi e che la materia trasmetta solo vibrazioni di frequenza differente, percepibili soggettivamente. Ma la realtà virtuale dimostra che la nostra mente può essere indotta a vedere cose che non sono senza il ricorso a sostanze psicotrope, a essere suggestionata con la nostra partecipazione attiva e, rabbia, largamente impotente. 

 

Non è un caso che la moda stessa, che da un lato si affanna a trovare soluzioni virtuali per aumentare le proprie vendite e la solita “esperienza” (al salone Vivatech di Parigi, chiuso due settimane fa, accanto a quello sull’“esperienza Notre Dame nel Medio Evo”, gli stand più affollati erano quelli di Dior e di Fendi che offrivano un’esperienza VR dei propri luoghi-simbolo, compresa una visita guidata allo store dell’Avenue Montaigne, non chiedetemi perché non sarebbe stato tanto più semplice andarci direttamente e chiedere), dall’altro affianchi studiosi e psicologi per analizzare i risvolti etici e scientifici di questa evoluzione. 

 
La mostra più interessante del momento, “Human brains. It begins with an idea”, organizzata dalla Fondazione Prada a Ca’ Corner della Regina, a Venezia, mette al centro del percorso una Conversation Machine, un sistema auto-organizzato di video interviste a trentasei neuroscienziati, psicologi, neurolinguisti e filosofi che, come un cervello umano, costruisce e assimila incessantemente il proprio ordine e disordine combinando in modo perfettamente plausibile e sempre diverso le dichiarazioni degli intervistati su questioni legate alle neuroscienze, indagandone le dimensioni etiche e perfino ontologiche. Il risultato è affascinante, si resterebbe fra quei video per ore, ma anche vagamente inquietante.

 

Il limite dell’evoluzione del virtuale, dice Geminiani, anche lui piuttosto dubbioso sul futuro del metaverso e di quella landa desolata di Decentraland, nomen omen, è piuttosto la nostra percezione visiva: “Più ci avviciniamo all’occhio, più la questione si fa complicata”. La fisica della visione umana è molto complessa e non ancora abbastanza esplorata nelle sue reazioni. Ed ecco che torna l’esperienza del volo con l’avvoltoio, per intenderci, con il senso di disorientamento e il malessere che ha provocato, perché quella vertigine del tutto falsa, indotta dalla percezione dell’occhio, era clamorosamente simile a una vertigine vera. 

 

La vera sfida sarà rendere emotivamente stabili e fruibili strumentazioni per la realtà virtuale che superino il limite dei 15 minuti 

 

Dicono le ricerche che sulla piattaforma Steam giochino circa 132 milioni di persone al mese, con il loro visore piazzato in testa (in caso vi mancasse di conoscere un’altra delle sfide fra Stati Uniti e Cina, sappiate che i relativi big tech stanno sviluppando entrambi visori 3D altamente sensibili e che al momento le performance fra Oculus e Pico risultano in pari); la vera sfida, commenta Geminiani, sarà però nella portabilità relativa dei vari strumenti, cioè di rendere non solo economicamente abbordabili, ma anche emotivamente stabili e fruibili strumentazioni personali per la realtà virtuale che superino il limite dei quindici minuti. Oltre quella durata, si finisce ancora con il pc e le batterie pesanti sulla schiena e con un senso di straniamento al termine dell’esperienza.

 

Gli esperti calcolano che ci vorranno ancora diversi anni perché un’esperienza immersiva acquisisca tutte queste caratteristiche. Per sviluppare il suo spettacolo un po’ disneyano, Blanca Li ha impiegato quattro anni, ma ci pensava da quasi dieci, cioè da quando venne lanciata sul mercato la tecnologia Oculus. E naturalmente, resta sempre da domandarsi se, per scopi meramente ludici, ne valga la pena.

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