La battaglia di Stalingrado (Foto LaPresse)

Il primo Vasilij Grossman

In libreria arriva “Stalingrado”, capolavoro da contestualizzare  

Giovanni Maddalena

Nel romanzo in uscita, prequel di “Vita e destino”, Vasilij Grossman cerca di rimanere all’interno dell’ideologia di partito. Non si trova qui quell’esplosione di ricerca di senso così evidente nel successivo e più noto capolavoro 

Enorme, la città si spegneva tra il fumo, la polvere e il fuoco, nel boato che scuoteva il cielo, l’acqua e la terra. Lo spettacolo era tremendo, ma ancora più tremenda era la morte negli occhi di un esserino di sei anni schiacciato da una trave di ferro. Perché se esiste una forza capace di risollevare dalla polvere città enormi, non c’è forza al mondo in grado di risollevare le palpebre dagli occhi di un bambino morto” (p. 507). Nelle righe purtroppo così attuali si capisce che Vasilij Grossman era già un grande scrittore prima di Vita e destino. Il romanzo che esce ora da Adelphi è la prima parte di quello che doveva essere un unico romanzo: Stalingrado. Nella mente di Grossman l’unica storia avrebbe dovuto narrare la saga di una famiglia stalingradese che, attraverso le sue vicende, illustra e spiega l’evento centrale della Seconda guerra mondiale, l’inizio della fine del nazismo, bloccato nella guerriglia della città dal nome più simbolico e infine vinto dalla cavalcata dei carri armati attraverso l’Ucraina, per arrivare a Berlino.

 

Perché questa prima parte del romanzo esce ora? Quali sono le differenze e le somiglianze tra questa prima parte e la più celebre seconda, conosciuta come Vita e destino? Qual è il senso e l’importanza del leggere oggi questo libro? La prima parte della saga fu scritta tra il 1943 e il 1949 e fu pubblicata nel 1952, un anno prima della morte di Stalin, con il titolo Per una giusta causa. Proprio a Stalin e alla scarsa libertà del regime di allora va ascritta la lentezza della realizzazione e della pubblicazione. Incominciato con entusiasmo, nella convinzione di costruire il Guerra e pace del Novecento, il libro fu presto imbastito ma il complicato sistema di censura staliniano fece sì che l’autore fosse sottoposto a innumerevoli sessioni di revisione, censura e discussione della riscrittura da parte di comitati appositi, formati da altri scrittori.

 

La censura di volta in volta, e seguendo la politica staliniana sempre attenta ai risvolti culturali, aveva indicato nel romanzo gli errori ideologici dovuti allo scarso ruolo dello stesso Stalin, alla mancanza di una sottolineatura della decisività del partito e dell’eroismo degli alti comandi, all’assenza di certe figure iconiche di operai-soldati-eroi e, soprattutto, alla centralità di personaggi non militari come il fisico Strum, di chiara origine ebraica. Scoppiava infatti allora la fase più cruenta dell’antisemitismo staliniano, che trovò un termine solo con la morte del dittatore il 5 marzo del 1953. Tra gli effetti della censura si ebbe anche il cambiamento di titolo, che dovette riprendere la frase con cui il ministro degli esteri sovietico Vjaceslav Molotov aveva annunciato la guerra contro la Germania, con la quale solo pochi mesi prima si era stabilito un patto di non aggressione. Grossman accettò molte delle critiche e riscrisse, in fondo convinto, almeno sulle prime, che la “giusta causa” della lotta al nazismo facesse passare in secondo piano gli orrori della carestia provocata in Ucraina nel 1932-33 e il terrore delle purghe del 1937.

 

L’estenuante lavoro di revisione e di contrattazione con la censura sulle parti da accettare e da cambiare è stato ricostruito alcuni anni fa dallo studioso italiano Pietro Tosco in collaborazione con lo studioso russo Bit-Junan. E’ Tosco, curatore di due pregevoli libri collettanei sull’autore russo-ucraino, ad avere recuperato il dattiloscritto sul quale si basa la versione che il medesimo Bit-Junan con il poeta e traduttore inglese Robert Chandler hanno ricostruito per questa edizione, che è stata pubblicata in inglese nel 2019. L’idea centrale, che ha suscitato più di qualche dubbio filologico tra gli specialisti, è quella di ricostruire la versione che Grossman avrebbe avuto in mente all’inizio del suo lavoro. Certo, Grossman aveva tenuto un diario delle sessioni di revisione, ma non ci sono indicazioni definitive per capire che cosa volesse lasciare e tenere.

 

I dubbi filologici vengono in fondo superati dall’esito artistico: come si diceva, Grossman era già un grande scrittore e aveva partecipato sia alla ritirata di fronte all’avanzata nazista sia alla battaglia di Stalingrado in prima persona, come volontario assegnato all’opera di reporter per Stella rossa, il diffusissimo giornale dell’esercito. I suoi reportage, con interviste di soldati semplici, erano stati un successo e parte di quella guerra di propaganda che aveva tanto influito sul morale delle truppe. Per questo, all’inizio, tutti si aspettavano che il romanzo di Grossman sarebbe stato l’opera definitiva sulla Grande guerra patriottica, come già allora si usava chiamare la Seconda guerra mondiale, che avrebbe sicuramente vinto il premio Stalin e consacrato per sempre Grossman come autore sovietico. Le cose andarono diversamente, anche se all’uscita il romanzo fu salutato con entusiasmo e proposto per il premio, per poi finire invece, qualche mese dopo, nel calderone degli attacchi antisemiti, a causa dell’etnia del suo autore.

La vicenda complessa della famiglia stalingradese, che si ramifica in modo tale da coprire ogni aspetto della guerra e ogni classe sociale, è in effetti avvincente anche in questa prima parte. Inoltre Grossman è sempre l’autore delle tante domande, piccole e grandi, sul destino degli esseri umani. “Cosa spinse quella giovane donna a fare dietrofront e a tornare nell’ospedale in fiamme? Forse aveva nelle orecchie le grida straziate dei feriti che aspettavano d’essere operati? O forse si rimproverava come una bambina per essere stata vile, per essere scappata via, e come una bambina ora si incaponiva per vincerla, tanta viltà? Aveva ripensato al regolamento, alla vergogna di disertare? O era stato il gesto casuale di un momento? Oppure, al contrario, quel gesto riassumeva in sé tutto il bene che altri avevano istillato nel suo cuore?” (pp. 532-3)

 

Sono le domande che costituiscono il senso religioso dell’essere umano, che Grossman, agnostico per educazione sovietica, non cessa di riportare. Grossman lavora da reporter e, come lui stesso afferma in più di un’occasione, il suo fine è quello di “scrivere solo la verità”, anche se dura o difficile. Il vero è che l’essere umano è fatto di domande sul destino, cioè sul senso delle vicende piccole e grandi in cui è immerso e in cui sono assorbite le persone care. Sarà questa anche la forza della seconda parte della storia e del successivo romanzo Tutto scorre, laddove quelle domande diventeranno così dirompenti e assolute da contestare il regime sovietico e l’ideologia in nome della libertà. E saranno quelle domande a far considerare la seconda parte come un romanzo a sé stante e a far condannare il loro autore, che morirà isolato nel 1964.

 

La grande differenza tra Stalingrado e Vita e destino, tra la prima parte e la seconda, è che in questa prima parte Grossman cerca di rimanere all’interno dell’ideologia di partito. Non si trova qui quell’esplosione di ricerca di senso, che lo porterà a essere accusato da Suslov, garante dell’ortodossia ideologica del regime, di aver scritto con Vita e destino un libro “che parla bene di Dio, della religione e del cattolicesimo”, “difende Trotzsky” ed “esprime seri dubbi sul regime sovietico”. Le grandi domande, che non troveranno alcuna risposta preordinata in Vita e destino, e per questo si apriranno ad ammettere ogni possibilità e a difendere la libertà assoluta di essere poste, trovano qui la rigida risposta ufficiale dell’ideologia marxista-leninista con il suo armamentario sentimentale un po’ stucchevole. “In quel momento difficile per la vita della gente e per il suo stesso cuore, sentiva di non essere debole, di non trovarsi in balìa del destino. […] E la visione di un uomo libero e felice, padrone della terra e del cielo, che governava con raziocinio e bontà d’animo un’energia possente, balenò per un istante come una folata di vento davanti ai suoi occhi, nel bagliore azzurrastro della lampada catodica” (p. 584). Oppure: “La macchina entrò: la statua di Lenin si stagliava, bianca, nella luce grigio chiaro di quell’alba d’estate. Novikov sentì un calore nel petto, e il cuore che batteva all’impazzata” (p. 569). L’attenzione di Grossman nel dire il vero senza però oltrepassare la pericolosa linea di ciò che era ammesso dal Partito fa sì che la prima parte non valga la seconda, giustamente più famosa e scuola indispensabile per una comprensione effettiva della libertà e dell’umanità.

 

Perché leggerlo allora? Le ragioni sono molte, anche al di là del piacere estetico che si trova anche in questa prima parte. La prima ragione, la più semplice, è che rende finalmente unitaria la storia. Chi non avesse mai letto Vita e destino potrà leggere un unico romanzo, anche se rimarrà stupito dal fatto che nella seconda parte manchino le risposte ideologiche, le soluzioni precostituite alle domande, la visione in fondo moralista di bene e male che alimentava il mondo sovietico. Chi avesse letto e amato Vita e destino troverà con piacere l’inizio della storia dei propri personaggi preferiti e apprezzerà la loro progressiva umanizzazione durante il percorso del romanzo, oltre che scoprire delle storie di personaggi a cui la seconda parte faceva allusione senza che si comprendesse bene di che cosa stesse parlando.

 

Ma c’è una seconda ragione, più profonda. Nel ripercorrere l’intero romanzo il lettore vedrà la progressiva liberazione dei personaggi e del loro autore dall’ideologia. È un cammino doloroso, guidato dalla fedeltà ai fatti, segnato dalle cadute morali dovute alla paura del regime e della repressione, dalla crescita incessante dell’amore alla libertà. Sarà per questa libertà che in Vita e destino il colonnello Novikov ritarderà di 8 minuti l’ordine di assalto disobbedendo a Stalin stesso e pagando tale disobbedienza con la carriera così come sarà per la libertà che il colonnello Darenskij, già uscito da anni di lager sovietico e riabilitato per la guerra, metterà a repentaglio la propria condizione per difendere un soldato tedesco prigioniero. Sarà ancora per quella libertà, quella vera, dell’anima, che Ženja abbandonerà il suo amore con l’ufficiale sovietico di successo per andare ad assistere l’ex marito, già commissario politico e ora caduto in disgrazia, mentre affronta processo e condanna alla Lubianka. Per Grossman, infatti, libertà e vita coincidono, come non smette di affermare in tutta la seconda parte della dilogia. Così, senza indulgere alla retorica dell’eroismo, i personaggi grossmaniani, come il loro autore, diventano eroi loro malgrado, per difendere quell’anima piena di affetti e di domande a cui nessun partito e nessun potere deve poter imporre restrizioni. Per quella libertà, non idealizzata romanticamente e non teorizzata ideologicamente, vale davvero rischiare la vita. Ed è difficile non pensare che questa sia la grande questione, mentre cadono di nuovo le bombe sull’Ucraina, terra natale di Grossman, già martoriata da comunisti e nazisti, e ora calpestata dalle truppe del neoimperialismo putiniano.