Un poster di propaganda sovietico che recita "Mantieni rigorosamente i segreti di stato e militari"  

Le spie che venivano dall'est. Tra "aiuti" all'Italia e agenti doppiogiochisti

Francesco Palmieri

C'è un'interminabile sfida a scacchi che si disputa sul suolo del nostro paese con l'intelligence di Mosca. Le poche mosse emerse dagli anni Trenta a oggi regalano vicende tanto variegate da mettere a dura prova chi voglia tramutarle in un romanzo

Ciak pomeridiano su un parcheggio semideserto di Spinaceto, periferia sud della Capitale omaggiata da una menzione di Nanni Moretti: due signori di mezz’età si passano, con ostentata indifferenza, due scatole di medicine. La più piccola, ceduta dal capitano di fregata Walter Biot, custodisce una scheda con 181 foto di documenti “classificati” sulla Nato e la sicurezza nazionale, che ha scattato con lo smartphone nell’ufficio dello Stato maggiore della Difesa dove presta servizio. Gli porge l’altra scatola Dmitrij Ostroukhov, spia sotto copertura diplomatica dell’ambasciata russa: contiene un compenso di cinquemila euro in contanti. I carabinieri del Ros li sorprendono nella flagranza dello scambio sigillando un’operazione avviata dal controspionaggio italiano. E’ il 30 marzo 2021. Il diplomatico viene espulso dal paese. L’ufficiale di Marina, finito sotto processo, rischia pene severissime.

L’ombra della guerra in Ucraina si allunga intanto anche sulla missione sanitaria “Dalla Russia con amore” della primavera 2020, quando il Cremlino per un accordo con Palazzo Chigi spedì a Bergamo un contingente di 104 persone tra operatori sanitari e militari. Scopo dichiarato: assistere l’Italia nel periodo più drammatico della pandemia di coronavirus.

 

Marzo 2021. Il capitano di fregata Walter Biot, custodisce una scheda con 181 foto di documenti “classificati” sulla Nato e la sicurezza nazionale

 

Ciak all’aeroporto di Pratica di Mare, 22 marzo, esterno notte. Sulla pista il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, mostra alle spalle “il primo degli aerei Antonov, uno dei più grandi aerei al mondo, il primo dei nove russi che atterreranno qui nella notte e porteranno circa otto squadre di medici e infermieri militari che sosterranno i nostri medici”. Scontata tra loro, secondo prassi, la presenza di uomini del Gru (Glavnoe Razvedyvatel’noe Upravlenie), l’agenzia di intelligence delle Forze armate. Scontato è il tallonamento cui la missione fu sottoposta dai servizi italiani.

E’ l’interminabile sfida a scacchi che si disputa sul suolo italiano con le spie dell’est. Le poche mosse emerse dagli anni Trenta a oggi regalano vicende tanto variegate da scoraggiare chi voglia tramutarle in un romanzo. Qualcuno gli direbbe: hai esagerato. Se una continuità esiste fra l’Unione Sovietica e la Russia di Putin è l’importanza attribuita alla Humint, la human intelligence, malgrado o a corollario di qualsiasi “dottrina Gerasimov” sulla guerra ibrida, la cyberintelligence e l’infowar. Chi ascolta, manomette, fotografa o sottrae resta sempre una pedina preziosa. Come il tenente colonnello francese della base Nato di Napoli, arrestato per spionaggio ad agosto 2020 mentre era in patria per ferie, dopo aver girato ai russi un dossier “classificato”. Ebbe un maldestro predecessore negli anni settanta (senza contarne, come è immaginabile, tanti altri mai assurti dai silenzi dell’intelligence alla rinomanza delle cronache).

Ciak negli uffici del Naval investigative service alla base napoletana della Nato: un giovane vestito di scuro con valigetta ventriquattrore suda chiuso in una toilette aspettando il momento per introdursi nella camera blindata dove sono custoditi documenti segretissimi, addirittura i piani operativi della VI Flotta. Approfittando di un cambio turno del personale di guardia, riesce a penetrare nella stanza e ad arraffare molte carte. Operazione straordinaria se non fosse rovinata da un’assurda distrazione: la spia dimentica la valigetta con il passaporto e mentre cerca di recuperarla s’imbatte in un sottufficiale che gli chiede il lasciapassare. Qui finisce la missione del ventottenne belga Eugenio Roger de Bruyeker da Anversa, per pronta confessione agente dei sovietici. Il fatto avviene a luglio del ’75 ma la notizia arriva ai giornali solo il 14 ottobre seguente, quando per primo la racconta Salvatore Maffei sul Carlino e La Nazione. Incredibile la semplicità con cui De Bruyeker ha superato il primo filtro della base militare: “Ha atteso l’arrivo del bus dell’U.S. Navy – riferisce il cronista – e quando i poliziotti americani hanno intimato l’alt per il controllo dei documenti e per ispezionare il veicolo, è riuscito a passare dal lato opposto”. “I quattro marines ch’erano di guardia al varco della ‘reserved area’ sarebbero stati deferiti alla corte marziale. Il fatto di essere riusciti, sia pure per caso, a catturare la spia giocherà tuttavia a loro favore nel processo”, conclude la cronaca. Chissà come finì: né di loro né del belga il pubblico saprà più nulla.

La rete romana di spie di Mosca, che sarà scoperta nella primavera 1942 dal Sim, fu allestita dall’addetto stampa dell’ambasciata sovietica

 

Risalire la corrente carsica dello spionaggio dell’est in Italia riconduce agli anni Trenta del secolo scorso, quando ingaggia la lotta con il Sim (il Servizio informazioni militare) e l’Ovra, la polizia segreta fascista. I caratteri che resero i servizi di Mosca diversi dagli altri furono la prevalenza dell’ideologia nel reclutamento, l’abile impiego di radio clandestine (oggi degli hacker), la rigida compartimentazione delle reti spionistiche, la predisposizione di cellule “dormienti” grazie ad agenti muniti di falsi passaporti di Stati neutrali, lo sfruttamento della propaganda comunista. La rete romana, che sarà scoperta nella primavera 1942 dal Sim, fu allestita dall’addetto stampa dell’ambasciata sovietica, il funzionario del Comintern Leonid Bondarenko, e funzionò anche dopo la chiusura degli uffici diplomatici con la dichiarazione di guerra all’Urss.

Ciak in via delle Fornaci. Interno giorno nell’appartamento di un irreprensibile commerciante che abita nella Capitale da due anni: il presunto finlandese Holgar Tarvonen, grossista di apparecchi elettrofonici e responsabile del mal di testa che affligge da tempo gli uomini del Sim, i quali captano messaggi radio in cifra sconosciuta originati in apparenza dal Vaticano, avvalorando i sospetti sulle attività della Santa Sede a favore degli angloamericani. Quando, spinti da una soffiata, fanno irruzione in casa Tarvonen, chiariscono il mistero: è lui il marconista, grazie a un potente ricetrasmettitore a onde corte celato nello stipo dietro un termosifone. L’uomo, che è un agente del Gru, viene costretto a collaborare inviando a Mosca informazioni “intossicate” dettate dai servizi italiani, che riusciranno a sgominare l’una dopo l’altra tutta la squadra di spie. Il capo, nome in codice “Paolo”, risulta essere il cittadino svizzero Fritz Schneider, ma è un’altra falsa identità. Si tratta dell’ufficiale sovietico Hermann Leo Marley, che coordina il gruppo dall’albergo Miramare di Ostia e farà i nomi dei suoi collaboratori, tra cui Giorgio Conforto e Ruggero Zangrandi. Il primo era già stato scoperto nel 1932 a spiare per Mosca, ma aveva simulato un ravvedimento tanto da essere inserito nel Centro anticomunista del ministero degli Esteri dove aveva ripreso le sue attività per i sovietici; il secondo, compagno di scuola di Vittorio Mussolini, era passato dal fascismo di sinistra alla fronda al regime costituendo un Partito socialista rivoluzionario. Quando lo arrestano, gli trovano la bozza di un appello agli ufficiali di complemento in cui esorta a “boicottare, logorare, sfottere, frizionare, neutralizzare, sperperare” per preparare fra la truppa la sconfitta dell’Asse.

Conforto e Zangrandi sopravviveranno a Regina Coeli e alla deportazione in Germania dopo la caduta del Fascismo. Alla fine della guerra, Conforto riprende a operare per i sovietici fino al 1968, quando viene congedato con una pensione di 180 rubli al mese che percepirà fino alla morte nel 1986. Zangrandi s’iscrive al Pci, pubblicherà libri e farà il notista politico per Paese Sera. Si toglierà la vita nel 1970.

Quattro sono, si dice, i motivi che spingono a tradire il proprio paese e li contiene l’acronimo Mice: Money, Ideology, Compromise, Ego

   

Ciak in una chiesetta di Trastevere, dove gli agenti del Sim grazie a un messaggio ricevuto sulla radio di Tarvonen dagli ignari agenti di Mosca si presentano a un abboccamento con Alexander Kurtna, ex seminarista estone che lavora all’Archivio segreto Vaticano e come traduttore alla Congregazione per le Chiese dell’Est. E’ la pedina di Mosca nella Santa Sede, ma non solo: è un caso di doppio o forse triplogiochista. Nel 1941 il direttore dell’Istituto germanico gli corrisponde un appannaggio mensile per i suoi studi di paleografia diplomatica, ma scaduta la “borsa” gli presenta il maggiore Herbert Kappler, comandante della Gestapo a Roma, il quale comincia a pagare Kurtna per la compilazione di una rassegna stampa sulla Germania e il Vaticano. Può darsi che il nazista, scoperto chi sia, lo utilizzi per ingannare con false informazioni i sovietici o viceversa, mentre il Sim addirittura ipotizza che Kurtna, dipendente dal cardinale Eugène Tisserant, lavori anche per i servizi segreti francesi. Lui, dopo venti interrogatori e quattordici mesi di carcere, continuerà a negare di essere una spia. Alla caduta del Fascismo, Kappler ordina di scarcerarlo e fa sparire il suo dossier, ma per Kurtna non finisce bene anche se nella Roma liberata offre servigi agli Alleati. Un mattino di giugno del ’44, uscito dalla sua abitazione in Prati, viene avvicinato da un garbato signore con un giornale in caratteri cirillici, che gli domanda se capisce il russo: mentre Kurtna annuisce e si china sulla pagina, l’uomo lo afferra per la testa e lo spinge in un’automobile che parte a gran velocità. Destinazione porto di Napoli, dove è ormeggiata una nave russa. Secondo gli storici, l’estone termina l’indesiderato viaggio in un gulag siberiano. E’ certo che di lui non si saprà più nulla.

Quattro sono, si dice, i motivi che spingono a tradire il proprio paese e li contiene l’acronimo MICE: Money, Ideology, Compromise, Ego. Forse ce ne sarà stato anche qualche quinto per il giornalista Gottfried Kusen, Fritz per gli amici, nome in codice “Mozart”, bordeggiante vari servizi del Patto di Varsavia nel secondo Dopoguerra, quando lavora ai notiziari di Radio Vaticana come speaker e traduttore dal tedesco. E’ nel delicato periodo del pontificato di Giovanni XXIII, con l’avvio del dialogo col blocco sovietico, l’apertura del Concilio Vaticano II e la pubblicazione dell’enciclica Pacem in Terris, che “Mozart” fornisce pregiate informazioni allo spionaggio ungherese e forse ne raccoglie a beneficio della Santa Sede, alle prese con il caso del perseguitato cardinale Mindszenty e con l’Ostpolitik. La figura di Kusen tuttavia insospettisce i servizi magiari, che indagano sul suo passato e sui rapporti con altri paesi, finché i colleghi polacchi non rivelano loro il suo sospetto impiego quale agente della curia vaticana presso il blocco socialista. Senza escludere di peggio: il monsignore tedesco Gerhard Fittkau, amico di Kusen, risulta titolare di tre indirizzi di copertura usati a Roma dalla Cia. Addirittura, secondo lo spionaggio cecoslovacco, Kusen avrebbe lavorato per i servizi di Bonn. Per prudenza il fascicolo “Mozart”, aperto nell’estate ’62, viene chiuso dall’intelligence ungherese nell’estate del ’64.

Il caso di Alexander Kurtna, che lavora all’Archivio segreto Vaticano e come traduttore alla congregazione per le Chiese dell’est

Ma chi fu davvero Kusen? Nato a Colonia nel 1901, in Italia dal 1924 come corrispondente di un giornale di Dresda, poi addetto stampa dell’ambasciata tedesca fino al 1931, vagheggia simpatie socialiste. Nel 1935 sposa una nobildonna di Sorrento ed è privato della nazionalità, ma dal ’36 è informatore dell’Ovra con Italo Tavolato, scrittore futurista di cui diventa amante e vive collaborando con vari corrispondenti dell’Associazione stampa estera. Ma soprattutto li ascolta. Grazie al suo lavoro la polizia politica smonta le reti dell’intelligence tedesca che indaga sui gerarchi fascisti a Roma, espellendo prima il corrispondente del Bergwerks Zeitung di Düsseldorf, Hans Joachim Boettcher, quindi l’agente Horst Weyhmann, considerato l’asso dello spionaggio nazista. E’ sempre grazie a Kusen che l’Ovra passa al Sim la “pratica” di Kurt Sauer: una bomba spionistica e diplomatica che scoppia il 30 maggio 1942. Sauer è l’addetto culturale dell’ambasciata del Reich, un intellettuale finissimo amante del teatro e antinazista nel profondo del cuore, che ogni tanto si lascia andare ad avventate esternazioni in qualche tavolata di giornalisti dove siede anche Kusen. Le intercettazioni e i pedinamenti del Sim porteranno al suo arresto e a quello di altre due spie, che passavano le informazioni sottratte da Sauer in ambasciata ai servizi sovietici e britannici grazie alla complicità di un diplomatico svizzero. Kappler, che non s’era accorto di niente, va su tutte le furie e reclama il prigioniero, ma il tenente colonnello dei carabinieri Manfredi Talamo non glielo dà (e più tardi finirà massacrato alle Fosse Ardeatine). Condannato per spionaggio, Sauer è fucilato all’alba del 2 giugno 1943 nel cortile di Forte Bravetta.

Kusen veleggia attraverso l’occupazione nazista collaborando con l’intelligence dell’ammiraglio Canaris, ma all’arrivo degli Alleati indossa casacca britannica e sconta il passato neanche pesantemente, con l’internamento in un campo di prigionia fra il ’45 e il ’46. Tre anni dopo, fino al 1969, sfogherà dentro le Mura Vaticane la sua inesplicabile voglia di essere spia comunque, per chiunque, dovunque.