Ansa 

curare le ferite

Kader Attia, l'artista che indaga la decolonizzazione come sindrome dell'arto fantasma

Costantino della Gherardesca

Il direttore della dodicesima Biennale di Berlino è la nuova superstar dell'arte contemporanea. Figlio di immigrati algerini nella banlieue parigina, mette a confronto i modi in cui ogni cultura affronta il tema della riparazione, dalla chirurgia plastica alle maschere tribali africane

Cinquantenne, nato e cresciuto nella banlieue parigina, figlio di immigrati algerini: Kader Attia è la nuova superstar dell’arte contemporanea. Quest’anno sarà il direttore della dodicesima Biennale di Berlino, che si terrà dall’11 giugno al 18 settembre. Ad affiancarlo, avrà un team composto da Ana Teixeira Pinto, Do Tuong Linh, Marie Hélène Pereira, Noam Segal e Rasha Salti, cinque artiste molto diverse tra loro, ma che con Attia hanno in comune un interesse che sarà il perno attorno al quale ruoterà il programma dell’intera manifestazione: la decolonizzazione.

Attia, infatti, ha sempre sentito sulle sue spalle il peso del colonialismo (nel caso della sua tradizione familiare, quello francese) e l’ha sempre dimostrato nella sua produzione artistica. 

La centralità di questo tema era evidente già nel 2012, nella sua The Repair from Occident to Extra-Occidental Cultures, un’opera nella quale i volti sfigurati dei soldati della Grande guerra erano accostati, tra le altre cose, a maschere tribali africane. In questa grande installazione, Attia mette a confronto i modi in cui ogni cultura affronta il tema della riparazione: mentre i chirurghi occidentali degli anni Venti del Novecento usavano i corpi e in particolare i volti mutilati dei soldati feriti in battaglia per creare le basi della moderna chirurgia plastica, nelle maschere tribali vediamo come altre culture interpretino creativamente il tema della deformità. Attia incarna due filosofie differenti, due reazioni diametralmente opposte allo stesso stimolo: in lui convivono il trattato di rinoplastica che il dottor Jacques Joseph scrisse nel 1928, opera che Attia cita anche nella grafica (la copertina di questo saggio è identica a quella del libro che raccoglie le immagini e i testi dell’installazione), e l’antica tradizione delle maschere. Se il chirurgo occidentale cerca di ripristinare l’ordine iniziale eliminando o quantomeno riducendo la deformità, l’artigiano africano crea un volto nuovo da sovrapporre a quello reale, un atto creativo che “ripara” e fa evolvere la stortura anziché cancellarla.

“Riparare” è la parola sulla quale si poggia tutta l’opera di Attia, perché è in quell’azione curativa che per lui risiede il modo per reagire e rispondere al colonialismo: il colonialismo è una ferita che Attia vuole studiare ed esaminare più che rimarginare.

“Da quando esistiamo siamo vite riparate perché l’esistenza è una ferita”, dice Attia. “La prima cosa che fa un bambino quando nasce è piangere. Il pianto come il grido sono ferite del silenzio, la musica è una ferita del silenzio, le onde spostano l’aria e producono un suono che a sua volta è uno spostamento che rompe il silenzio. La riparazione è prima della ferita e anche viceversa, dunque tutto è riparazione, tutto è ferita. Nella mia pratica la presenza della ferita è qualcosa di reale ma anche qualcosa di metaforico perché la psiche crea immagini”.

La ferita quindi è una realtà con cui confrontarsi e la riparazione non è un processo di rimozione della memoria, ma un percorso di apprendimento: con la ferita si impara a convivere ed è lei che ci insegna a guardare il mondo, perché la ferita che ognuno porta dentro di sé (di qualunque genere essa sia: fisica, emotiva, psicologica, economica…) condiziona il nostro modo di vivere, vedere e vederci. L’idea è ancora più chiara nel suo film del 2016, Reflecting Memory, un documentario sulla sindrome dell’arto fantasma nel quale Attia ha intervistato specialisti e persone mutilate che hanno raccontato cosa vuol dire perdere una parte di sé e continuare a sentirla. L’arto fantasma è la metafora perfetta per parlare di colonialismo e decolonizzazione, perché “le ferite aperte domandano una riparazione, le persone o le comunità che sono state vittime di genocidi vogliono una riparazione che ha poco o niente a che vedere con la vendetta”, dice Attia. “C’è un fantasma che chiama la riparazione e sino a quando questa non avverrà, sino a quando non saranno stati giudicati quegli anni e quelle azioni, la ferita continuerà a chiamare”.