Uomo bianco, va' a Berlino

Maurizio Crippa

Che cosa si può imparare dalla Berlin Biennale d’arte contemporanea e dalla capacità della Germania di promuovere cultura (e qualche spavento eurocentrico)

Berlino. Succedono cose, a Berlino. Come ad esempio entrare in un salone completamente buio e avere per unico riferimento, fluttuanti nel vuoto, corpi luminosi che replicano la posizione nel cielo della Croce del Sud come la videro gli esploratori europei quando per la prima volta attraversarono l’equatore e portarono le armi, la tecnica (e anche la cultura?) dell’uomo bianco. E’ un’istallazione di una giovane artista brasiliana, Aline Baiana, e poiché da quell’attraversamento d’emisfero da parte di uomini europei nacque anche il grande sfruttamento delle miniere brasiliane, quelle stelle appese al soffitto sono fatte con materiali di scarto del lavoro minerario che ha cambiato il volto di molte regioni di quel paese. Oppure succede di vedere allineate su un lunghissimo leggio le cento tavole originali di una “graphic novel” disegnata in segreto, con materiali di fortuna e di sopravvivenza, e raccontata con lo stile dei racconti tradizionali curdi da Zehra Dogan, giornalista, attivista, femminista e artista curda. La particolarità e il grido lacerante che si alza da queste tavole è che sono state realizzate in una prigione turca di Erdogan, dove Zehra Dogan è stata rinchiusa per tre anni per “propaganda terrorista”, non per la sua attività politica ma proprio a causa di alcune sue opere d’arte.

Succedono cose a Berlino, che è pur sempre la capitale del paese più potente d’Europa, che offrono spunti di riflessione utili anche per il nostro paese e il nostro sistema culturale, la sua organizzazione e i suoi punti di orientamento, le Croci del Sud cui bisogna fare attenzione. Ad esempio, succede che il 5 settembre (fino al 1° novembre) ha aperto la Berlin Biennale 2020 di arte contemporanea, che era stata annullata in primavera causa Covid e che gli organizzatori hanno ora deciso di far partire ugualmente, pur con qualche restrizione e un flusso di pubblico inferiore, nelle quattro sedi d’esposizione – l’ExRotaprint, un ex sito industriale per macchine da stampa; la Daadgalerie; il Gropius Bau, magnifico palazzo in stile rinascimentale costruito nel 1881 da Martin Gropius, nonno del fondatore del Bauhaus, come museo e Scuola di Arti e Mestieri; e il KW Institute for Contemporary Art, altro ex sito industriale nel centro della città – proprio mentre in Europa molti altri eventi simili, o importanti mercati d’arte hanno dato forfait. Come ad esempio Liste Art Fair di Basilea, Frieze London e Frieze Masters, e molte delle mostre che avrebbero dovuto avere un posto centrale in questo anno di pandemia.

 

 

Non è solo questione di una situazione sanitaria sotto controllo, o di una propensione al rischio calcolato. È anche questione del sistema cultura che, modellato sui Land federali (ogni Land ha una fondazione per la cultura, qualcosa più di un assessorato, con reale autonomia) in Germania è molto efficiente (ricco va da sé) e capace di programmazione e di coordinamento decisionale. Sistema, appunto. Così che tra i promotori della Biennale c’è fin dalle prime edizioni la German Federal Cultural Foundation, e c’è il dipartimento di Cultura del governo di Berlino. Ma assieme a questo impianto fortemente pubblico in Germania è importante il ruolo dei privati, fondazioni o grandi gruppi industriali con una consolidata strategia di intervento in tutto ciò che riguarda la cultura. Così ad esempio Bmw Group – attraverso la sua struttura dedicata, il Bmw Group Cultural Engagement, è il “corporate partner” della Biennale berlinese. Un ruolo che senza essere invasivo (nessuna polemica banale, da queste parti, sulla “mercatizzazione” dell’arte) è altro da quello di un semplice sponsor. Come ha scritto Thomas Girst su Art Newspaper, notando che con la pandemia “dozzine di musei negli Stati Uniti hanno licenziato migliaia di dipendenti” e i loro ricchi comitati promotori “sono riluttanti a fornire aiuto contro la difficoltà economica” mentre anche molti governi europei affrontano difficoltà, la necessità di offrire un contributo è sempre più urgente anche per le imprese private. Tanto più in un anno come questo. Girst non è un osservatore o commentatore qualsiasi. Storico dell’arte, critico, curatore, saggista, oggi è innanzitutto un manager culturale all’interno di questo sistema globale, in qualità di direttore del Bmw Group Cultural Engagement: la struttura, ampiamente autonoma nelle sue attività, della grande azienda bavarese di automobili che si occupa di progetti di medio e lungo termine nel mondo della cultura e della comunicazione. Osservando in prospettiva: non si tratta tanto di gestire sponsorizzazioni, come accade il più delle volte per le aziende italiane, in cerca di un immediato ritorno di brand; e non si tratta soltanto di un investimento diretto nel mondo dell’arte, come accade per aziende-brand come Prada con la sua Fondazione, per citare un esempio italiano particolarmente virtuoso. L’approccio è piuttosto quello di un sostegno alla cultura a tutto campo, che diviene poi valorizzazione della propria reputazione sociale. Una filosofia del valore e del “ritorno” sul territorio, e non solo nel proprio paese, simile per certi versi all’idea di “restituzione” e di collaborazione con altre istituzioni perseguita da anni in Italia da Banca Intesa (sempre per fare un esempio particolarmente noto e virtuoso). Paragoni fin troppo semplificanti, forse, ma che suggeriscono l’idea di un investimento sulle istituzioni culturali più strutturato di quello italiano. Dove sono ovviamente molte le grandi e medie realtà imprenditoriali che investono in cultura, e dove esiste ad esempio un sistema museale di aziende (Museimpresa) che ha punte di qualità.

Ma l’Italia è anche un paese in cui un meccanismo di “diversificazione” fiscale come l’Art Bonus, introdotto da sei anni, ha generato finora circa 400 milioni di euro in donazioni, poco rispetto a paesi come Stati Uniti o Regno Unito che hanno meccanismi simili da decenni, e segno di un ritardo per così dire concettuale del mondo economico, oltre che dei privati in generale. Inoltre nel nostro paese anche il sistema delle fondazioni non è paragonabile a quello tedesco, che vanta la maggiore spesa di investimento in azioni di pubblico interesse, non soltanto cultura ovviamente, circa il doppio del flusso generato in Italia. La normativa tedesca favorisce l’autonomia delle fondazioni rispetto agli stessi interessi dei privati o delle aziende o banche che le finanziano cosicché, in un paese molto programmatore e capace come nessun altro di fare sistema sugli obiettivi, per il “cultural engagement” dei privati diventa connaturale pensare di produrre cultura e non soltanto appoggiarla. Ovviamente Bmw Group Cultural Engagement non è una fondazione, ma un settore di un’azienda che da quasi cinquant’anni è impegnata nella promozione della cultura, dall’arte contemporanea al jazz alla musica classica e global partner di grandi manifestazioni internazionali. Sempre “garantendo assoluta libertà creativa”.

 

 

Così succede che a Berlino una Biennale d’arte contemporanea – che non ha la centralità o i numeri di quella di Venezia ed è invece più orientata alla sperimentazione, alla ricerca di giovani artisti – venga organizzata quasi come un lavoro collettivo, come “una serie di esperienze vissute che si evolvono come processo”. E allo stesso tempo, altro fattore di utile riflessione, possa essere un evento fortemente engagé, orientato verso quelli che la cultura europea ha sempre chiamato “nuovi mondi” e che invece – è l’impressione generata dal primo impatto visivo – sono mondi “che c’erano prima” e che ora, contaminati da due secoli abbondanti di predominio occidentale, si attrezzano a presentare il proprio conto. Quantomeno a in chiave simbolica e di linguaggi. Del resto i curatori dell’edizione 2020 sono latinoamericani – María Berríos, Renata Cervetto, Lisette Lagnado e Agustín Pérez Rubio. Ed è esplicito l’interesse verso un’arte forte, politicizzata (razzismo, gender culture, violenza “bianca” e religiosa sono i temi ricorrenti). “Abbiamo iniziato chiedendoci come celebrare la complicata bellezza della vita mentre il mondo brucia intorno a noi”, scrivono i curatori. Con toni differenti, con esiti artistici discontinui, la Biennale 2020 è per molti versi una celebrazione delle colpe Vecchio Mondo. Così mentre i grandi direttori e curatori dei musei internazionali, sotto lo stress della pandemia, ripetono come un mantra il tema di un cambiamento che deve guardare a un pubblico “più diversificato, meno ricco, meno istruito” (e in prospettiva anche ridotto) Thomas Girst annota che la loro capacità di intervenire non è sempre all’altezza. Perché ad esempio, accusa ormai soverchiante nelle nostre società, “i direttori dei maggiori musei in Europa e negli Stati Uniti sono ancora, più o meno, un club di uomini bianchi”. E allora produrre e programmare arte è pensare al tipo di offerta per quel pubblico “più diversificato, meno ricco, meno istruito” e di altri mondi che verrà. La Biennale di Berlino si intitola “The Crack Begins Within”, la frattura inizia dall’interno. La Biennale Arte di Venezia del 2019, con il suo record di visitatori nel mondo prima della pandemia, si intitolava “Che tu possa vivere in tempi interessanti”. Un presentimento. Da osservare con cura.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"