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Edmund Burke contro la benevolenza universale che cancella storia e tradizioni

Ginevra Leganza

Il filosofo britannico che pure vedeva nel tempo antico una traccia di solennità, non resta sigillato nelle parentesi polverose del passato. Tuona anche oggi per chiunque abbia orecchio

Londra, 7 maggio 1782. “La nostra è una Costituzione prescrittiva, una Costituzione la cui unica autorità deriva da tempo immemorabile”. Questo il succo di un appunto andato a vuoto. Edmund Burke avrebbe dovuto pronunciarlo contro William Pitt il Giovane, che intendeva allargare e redistribuire i rappresentanti del paese in Parlamento. Un discorso mai tenuto, chiuso nel cassetto, ben oltre due secoli fa. Ma a un classico non importa che il tempo passi. Meno che mai sarebbe importato al vecchio whig, tornato in libreria con Storia e tradizione (Mimesis, 192 pp., 18 euro). 


Burke, che pure vedeva nel tempo antico una traccia di solennità, non resta sigillato nelle parentesi polverose della storia. Tuona anche oggi per chiunque abbia orecchio. Sono tre i testi raccolti e illuminati da Giacomo Maria Arrigo. Il primo è appunto il discorso mai tenuto sulla rappresentanza dei Comuni in Parlamento. Agli “architetti politici” ovvero i forsennati dei sogni rivoluzionari, il Cicerone britannico oppone il principio naturale della prescrizione. La Costituzione inglese attraversa le sue tempeste ma è una roccia che resiste e svetta nel maremoto di sangue e mutamenti di fine Settecento. Ed è proprio il tempo immemorabile, il “time out of mind”, che la tonifica nelle prove della storia. Ecco perché Burke, nemico della folla in pieno contagio franco-rivoluzionario, si fa scudo degli statuti e della loro venerabile età, li protegge dal cambiamento purchessia. Gli altri testi sfaccettano la Rivoluzione francese e ne stroncano gli ardori.


Dicevamo che un classico sopravvive al contesto. E non è banale quanto Burke può dirci al di fuori del suo tempo, in questa nostra epoca riboccante di isterismi rivolti a un passato da cancellare. Ogni presente, del resto, ha i suoi rivoluzionari. A noi son toccati i sanculotti degli asterischi, gli energumeni dello schwa, i distruttori di statue e i revisori di lingue e letterature sessiste, abiliste, razziste… Nelle vene innovatrici, ora come allora, è sempre quella la sostanza stupefacente, sempre quella la droga che scorre e accende lo zelo. E’ un’overdose di benevolenza universale.
Burke riteneva che il pastore dei benevolenti fosse al tempo Jean-Jacques Rousseau. Il filosofo svizzero, ostentatore di flemma, tanto amante dell’umanità tutta intera, che abbandonò i suoi cinque figli all’ospizio dei trovatelli. Per dire dove porta l’astratto amore per la razza umana. Dritto dritto a un Monte Taigeto che ci sbarazza del nostro prossimo mentre amiamo l’universo intero. Poveri figli di Rousseau, che brutta fine. 
Senza fine e fuori moda mai sono invece le sue figlie putative. A Burke toccava Rousseau, il filosofo della vanità. A noi toccano le Braidotti, le Marzano o magari il gregge delle Murge (nel senso di Michela). E va beh, pazienza. Ma la sostanza che accende i fervori è sempre quella. La benevolenza universale che piano piano spinge alla tabula rasa. Alla cancellazione: ieri di una costituzione, oggi di una lingua, domani di pagine e pagine di letteratura. Leggere Burke non è saltare indietro nel tempo. E’ sapere che la moltitudine perde il pelo ma non il vizio della benevolenza universale. Il vizio di quell’amore che oggi arde, annega e tempesta di asterischi il mondo.
 

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