Da Wikipedia-Vitaliano Trevisan al cinema Excelsior di Trieste per la presentazione del film Primo Amore di Matteo Garrone 

1960-2022

La feroce trasparenza di Vitaliano Trevisan, che amava camminare sui tetti della vita

Marco Archetti

Ha raccontato l’infortunio dei ricordi e l’ethos del nord-est. Con una scrittura capace di staccarsi dai modelli estraeva la sua prosa con la trivella a mano

Vitaliano Trevisan aveva una bella faccia tomwaitsiana e zigomi segnati e scoscesi. Aveva sempre la capocchia di una sigaretta “fatta su” che spiava fuori dalle labbra raggricciate, e occhi stretti, aggressivi e indifesi, lo sguardo inattingibile e una parlata reticente, delicatamente svogliata, e alle sue spalle – per lo meno in una bellissima foto reperibile in rete – una libreria molto ordinata, con gli scaffali sostenuti, alle estremità, da due bei mattoni forati 25 x 12 x 12. 

 

Vitaliano Trevisàn era anche Vitaliano Trèvisan, e quando era Vitaliano Trèvisan – lo racconta lui stesso nel bellissimo Tristissimi giardini, uscito per Laterza nel 2010, gloriosa e felice collana Contromano (un buon primo passo, questo libro, per cominciare a conoscerlo) – era travestito da uno che aveva la sua faccia, ma non era lui. E con quella faccia piallata e di rappresentanza andava a parlare con registi ed editori, con quella faccia piallata sopportava tutte le prassi aliene al suo temperamento barbaro e riottoso, temperamento con cui, va detto, ha sempre avuto la lealtà di non fare araldica, alla faccia dell’andazzo: quanti appartati per nulla appartati, e anzi, onnipresenti e sovraesposti nel ruolo di appartati? Quanti asceti fotogenici? Quanti ostinati e contrari in servizio permanente, permanente anche la cosmesi?

 

Vitaliano Trevisàn si rammaricava che la sua scrittura teatrale non fosse tenuta in considerazione quanto quella letteraria ed era stufo di essere (ancora, ancora e ancora) liquidato come thomasbernhardista. Aveva come riferimento il jazzista Paul Motian, perché alla fine, bacchetta o penna che sia, bisogna sempre sapere quali note non suonare, e come diceva ne Il mondo meraviglioso – la sua più bella partitura per fantasmi – “la scrittura è nel bianco tra una riga e l’altra”. Ci ha saputo raccontare cosa significhi stampare teste di abbeveratoi per quaglie, o essere un daysleeper del carico scarico merci, e perfino quanto fosse bello camminare sui tetti della vita, rischiando l’osso del collo da un palazzo di Vicenza all’altro, per il puro gusto dello stupore e del rischio mortale. Ha raccontato l’infortunio dei ricordi, il paesaggio e l’ethos del nord-est (ma non solo) con un risentimento lucidissimo, ironia ossessiva e una scrittura che ha saputo staccarsi dai modelli, sempre più precisa quanto più convinto era lui, beckettianamente, che “la drammaturgia è come l’idraulica, a un certo punto servono dei pezzi, dei tubi, uno li prende e li collega”. Di recente aveva detto: “I soldi sono sempre centrali”, ed è terribilmente vero, così vero che solamente chi non li ha mai avuti può capire fino in fondo; chi, cioè, non ha avuto pianoforti in salotto ma una bicicletta da donna a sedici anni, clamorosa causa di pubblici, grandiosi coglionamenti di tutto il circondario. E questa – questo racconto di ogni cosa attraverso di sé, questa lama sfoderata, questa feroce trasparenza – era tutta la lealtà che, da scrittore, doveva al mondo, perché Trevisàn sulla pagina non era Trèvisan, e se raccontava non raccontava realtà zuccherate di pasticceria, ma estraeva la sua prosa con la trivella a mano.

 

Amava l’architettura ma detestava l’autorialità degli architetti. Studiava Mamet e Joe Orton, ed era critico verso i festival, con la loro “logica da supermercati costretti a crescere sempre”. Diceva cose giustissime e aveva spesso attitudini bizzose e incondivisibili, ma questo non ha alcuna rilevanza, e ce l’ha ancor meno adesso di fronte a quel che resta: la prosa gelida e esemplare di Grotteschi e arabeschi e il passo implacabile di Works, un libro bello e difficile da definire. Ha adattato Shakespeare e lavorato coi nomi più importanti del teatro contemporaneo, eppure non si è mai dato alla manfrina culturale e ad alcun dichiarato misticismo dell’ispirazione. Era fiero e precario, stentoreo e sgretolato. “La morte è sempre alla stessa distanza da noi. Non credo ci sia una fine,” disse una volta in un’intervista. “Si torna al silenzio.”

 

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