Gottfried Benn (Wikimedia Commons)  

La "Doppia vita" di Gottfried Benn

Elisa Veronica Zucchi

Un’autobiografia che è inevitabilmente autogiustificativa e che affronta lo spinoso problema della forma e dello stile indagando la sostanziale duplicità dell’io lirico

Nel 1938 un mattino ricevetti una lettera raccomandata dal presidente della Camera degli scrittori del Reich, con la comunicazione che ero stato espulso”, scrive Gottfried Benn in Doppia vita (Adelphi, 2021, a cura di Amelia Valtolina, con un saggio di Roberto Calasso). Un’autobiografia che è inevitabilmente autogiustificativa e che affronta lo spinoso problema della forma e dello stile indagando la sostanziale duplicità dell’io lirico. Ciò che interessa al siderale poeta “imperdonabile” (Cristina Campo) e sifilopatologo tedesco, a tutt’oggi misconosciuto, probabilmente a causa della coltre di fango che ha avvolto la sua opera per la sua fascinazione estetica verso la propaganda nazista, è soprattutto ciò che dilegua, la cenere: l’Io e, con esso, il possesso che l’Io esercita sulle cose. 
Membro dell’Accademia prussiana delle Arti dal ’32, nel ’33 riceve da un lungimirante Klaus Mann ventisettenne una lettera di ammonimento che è un’esortazione a lasciare l’Accademia e un invito a vegliare sui pericoli dell’irrazionalismo (Doppia vita, pp.82-85). Sempre nell’anno delle Legge per la protezione dei caratteri ereditari, Thomas Mann sceglie l’esilio, poco dopo il discorso tenuto all’Università di Monaco su Dolore e grandezza di Richard Wagner, in cui affronta il rapporto, semplificato e strumentalizzato dal nazismo, del compositore tedesco con il germanesimo. Poeta di rara grandezza, espulso suo malgrado dall’Accademia e medico nell’esercito tedesco, abitante nell’interregno fra nulla e creazione, Benn scrive all’amico F. W. Oelze (Lettere a Oelze. 1942-1945, Adelphi, 2006): “Il tedesco è veramente se stesso allorché esordisce con una sciatteria. E’ questa la felicità germanica. E la ‘collettività nazionale’ non è che una deteriore variante moderna del masochismo” (p. 21), sottolineando come la degenerazione sia diretta conseguenza del venir meno della volontà dello spirito e accusando Thomas Mann, pur riconoscendone la grandezza, di assumere una posizione rispetto al problema dello spirito priva di nerbo. La riflessione su arte e potenza è – lo dice lo stesso autore, influenzato da Nietzsche – centrale in Doppia vita. Mentre la volontà di potenza nicciana è autosuperamento, affermazione del desiderio che vuole il suo accrescimento, in Benn il desiderio è desiderio di congedo, sottrazione e potenza pura, cristallizzata: egli spegne la lanterna, si toglie il mantello di Zarathustra  e rimane nudo. In lui le potenze sorgive si stratificano, si rivelano in lontananze, in un distacco redimibile solo nello stile, prendono forma nei suoi alter ego Rönne e Pameelen. Rönne è “il medico, il flagellante delle cose singole, il nudo vuoto dei fatti (…) che conosceva soltanto il ritmico aprirsi e chiudersi dell’Io e della personalità” (Doppia vita, p. 36) e Pameelen è figura emblematica della disgregazione dell’Io: “Qui si compie a tutti gli effetti la disgregazione dell’epoca” (p. 43). Ma se l’alter ego di Nietzsche, Zarathustra, è un viandante, Rönne è il rintanato, il dileguante, l’argine alla frantumazione definitiva dell’Io di Pameelen e, forse, dello stesso Benn. Una “doppia vita” che, mentre salva, dice (non senza ironia): “Addio”. Poiché ciò che è più intimo è anche il più lontano: la vicinanza, allorché si infittisce, si oscura, e falcia il cerchio dell’idillio rigettandoci in una estraneità siderale. L’Io lirico che si inabissa nelle sue frammentazioni e raddoppiamenti prelude – così come la notte oscura dei mistici alla redenzione – all’epifania della realtà spirituale che per l’espressionista Benn è forma e stile, cenere del nulla.

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