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versi come neve

Il segreto della poesia di Antonia Pozzi va cercato sulle sue montagne

Gaia Manzini

Dalle Dolomiti alla Grigna, la solitudine della scrittura e dell’ascensione. La poetessa milanesetutto desiderava selvaggiamente di spartire il proprio cammino, credeva a una forma di purezza che è la nostra cima interiore. La nostra ricerca del vero, la nostra bellezza.

Oggi siamo stati a Pavia, a trovare la nonna, e nel tornare abbiamo goduto uno spettacolo indimenticabile. La macchina filava veloce sull’infangata alzaia pavese: vicino, il naviglio rifletteva il cielo terso del tramonto, e tutt’intorno, lievemente ondulata, si stendeva, spruzzata di neve, la fertile pianura. Laggiù, dietro un sottile ma fitto reticolato di rami brulli, il sole cala a poco a poco. E tutto è vermiglio intorno a lui e irraggiano nel cielo delle nubi e si allungano, quali sanguigne lingue di draghi favolosi, su di un fondo azzurrino che, in alto, si fa sempre più carico ed è, sul nostro capo, del più bel turchino. Tremule occhieggiano le prime stelle”. E’ il 26 dicembre del 1925. Antonia Pozzi ha tredici anni e scrive fitta sul suo quaderno. Sta scoprendo che la scrittura è irrinunciabile alla sua vita così come il suo sguardo non è mai sazio di immagini, di conoscenza e di desiderio di darsi al mondo. La sera del 21 dicembre è stata alla Scala insieme ai genitori. Davano “Madama Butterfly”. Antonia è incantata dalla musica e dal dramma che si consuma sulla scena. Non si possono leggere queste pagine di diario se non con un senso di commozione, non si possono che intravvedere parallelismi. Come Cho-cho-san, giovane protagonista dell’opera di Puccini, anche Antonia si innamorerà quindicenne di un uomo più grande di lei (Antonio Maria Cervi, suo professore di Latino e Greco al liceo Manzoni di Milano), come lei sognerà invano la felicità, come lei cercherà una via di uscita estrema al proprio soffrire. Mentre è alla Scala, però, Antonia ancora non sa niente di quello che ha in serbo per lei il futuro. Sul palcoscenico tutto è sole e incanto di primavera, mentre fuori su Milano sta cadendo la neve. La neve: a questa poetessa associo proprio la neve; la neve e la montagna come luogo ideale a cui consacrare la purezza delle proprie intenzioni e del proprio vivere.

 

Sta crescendo, Antonia: alla vigilia di Natale ha addobbato l’albero e si è accorta che ormai le sembra sempre più piccino in confronto al suo corpo di ragazza che si fa grande. Sempre più alta, ormai è lì, al confine tra l’infanzia e l’età adulta; lo confermano i regali dei genitori: uno in contrasto con l’altro. Antonia scarta i suoi doni e trova una splendida enciclopedia Larousse, e ancora libri, libri, libri – sono i regali per la studentessa impegnata. C’è poi il regalo per la bambina: una bambola Lenci; e ancora, il regalo per la piccola donna: un vaporoso abito da sera. Già il Natale successivo il suo sguardo sarà cambiato. Quello del ’26 è un Natale diverso, venato di ingiustificata malinconia, di nuove vibrazioni interiori. Antonia coglie dietro a ogni cosa –  dietro ai sorrisi, agli auguri, all’atmosfera allegra – un sentimento di paura; paura del tempo, soprattutto, che fugge così in fretta per lei e per la sua anima palpitante, nostalgica, appassionata; prova una tale pienezza di sentimenti che forse non avrà abbastanza tempo per viverli tutti. A febbraio andrà a pattinare con gli amici al Palazzo del Ghiaccio – è come la scena di Anna Karenina, ma ancora senza l’amore, senza il desiderio di donarsi. C’è solo la svagatezza dei giochi; almeno fin quando l’allegra compagnia non si riunisce a casa di uno di loro. Seduti in veranda parlano di tutto, ma Antonia dopo un po’ si estrania. Prova un’impressione difficile da esprimere quando pensa alla vastità della terra: le ritorna in mente il panorama goduto dalla madonnina del duomo, ma pensa che no, la terra è più grande ancora. Ritorna allora alle sue montagne, alla visione scintillante avuta sulla cima della Grignetta: ma no, la terra è più vasta anche di quel panorama. E’ immensa, sconfinata, curva all’orizzonte. E’ come la vastità del suo sentire, come l’amore strabordante che Antonia Pozzi sente per la vita e per la poesia. Ed è alle montagne che vuole sempre tornare, perché le montagne contengono e rendono eterna quella sua vastità fanciulla. 
Antonia Pozzi è considerata una delle più grandi poetesse italiane, ma non ha mai pubblicato alcuna poesia in vita. Se ne è andata che aveva ventisei anni, dopo essersi stesa nella neve di Chiaravalle avendo in corpo un’ingente quantità di barbiturici. Veniva da una famiglia dell’aristocrazia milanese, aveva sempre studiato: prima al liceo Manzoni e poi all’Università Statale dove aveva frequentato il corso di Estetica di Antonio Banfi, intorno al quale si radunava uno stretto circolo di amici e giovani intellettuali. Alberto Mondadori, Enzo Paci, Dino Formaggio, Remo Cantoni e tanti altri che contribuivano negli anni Trenta ad animare quella parte della vita intellettuale milanese che già resisteva al regime, almeno sul piano culturale e morale. 
Antonia si laurea con Banfi, la tesi è su Flaubert, anzi su Madame Bovary. In un colloquio in università, lei prende coraggio e gli racconta anche della sua attività poetica. Il professore la guarda con ammirata curiosità: è sempre molto confuso davanti a quella giovane così timida e profondamente insicura. Il talento intellettuale delle donne era sempre accolto con un qualche imbarazzo, e lei quell’imbarazzo lo sentiva, non si sentiva legittimata a esprimere appieno le proprie capacità. Con la poesia e lo studio, così come con l’amore, Antonia sembra sempre cercare un posto nel mondo, ma le sembra sempre di non trovarlo. Tranne a Pasturo, tranne sulle sue montagne. 

 

Nell’agosto del 1929, scrive all’amata nonna Maria Gramignola di aver fatto la sua prima ascensione di roccia. L’assicura che con una buona guida si può veramente andare ovunque, tanto più che nel salire non si è altro che carne pieghevole e istinto felino. Ma poi quando sei in vetta, quando intorno vedi l’anfiteatro di guglie e ghiaccio; quando fissi lo strapiombo e affoghi in una fluidità vertiginosa, allora una brezza folle ti invade, insieme all’adorazione per la tua fragilità che ha così vinto la materia. Ma forse a essere montagna è la stessa poesia, erta ascesa di uno scalatore, conquista di una vetta in silenzio e solitudine. La montagna sono anche le Dolomiti. A Misurina ci va nel 1934, insieme all’adorata e inseparabile amica Lucia Bozzi. Lì prende lezioni di sci da Emilio Comici, tra i più famosi scalatori dell’epoca. Quando conosce il poeta trentino Tullio Gandez, invece, con il suo immaginario legato alle montagne e soprattutto a San Martino, nasce un sodalizio che durerà negli anni. Belle, bellissime sono le lettere che Antonia manda a questo poeta, che sente affine nel paesaggio mentale. Un inverno Antonia era stata a San Martino di Castrozza con la famiglia ed era salita fino al cimitero di guerra sotto il Cimon della Pala, il giorno dopo che Gandez era partito. Era un pomeriggio nebbioso, nevicava rado e leggero. La strada era lì davanti, tutta bianca e muta e per lei sola. Non si sentivano neanche gli uccelli; Antonia non riusciva altro che ad avvertire il suo cuore che ripercorreva le parole più tristi delle poesie dell’amico. Arrivata al cancello aveva dovuto scavare con le mani per aprire, ma poi all’interno la neve era così tesa e immacolata che non aveva avuto il coraggio di calpestarla. Le era bastato raccogliere un ramoscello a forma di croce e metterlo tra le sbarre per poi venire via.
Le Pale di San Martino, Misurina, Madonna di Campiglio. Anche se poi l’immagine di Antonia è indissolubilmente legata alla Grigna e a Pasturo, dove i Pozzi avevano una casa di famiglia e dove lei è stata sepolta dopo la sua prematura scomparsa. Pasturo e le sue montagne, Pasturo e la stanza dove lavorava, Pasturo che assomiglia nelle sue parole a un luogo interiore e ideale, anche quando si tratta di roccia e vette. Il tavolo della sua stanza era per lei un porto. Bastava rientrare in quella camera dopo qualche tempo, bastava sentire quell’odore speciale di mobili e tutto quello che Antonia aveva vissuto fuori di lì le ritornava nitido alla mente. “Quando dico che qui sono le mie radici non faccio solo un’immagine poetica. Perché ad ogni ritorno fra questi muri, fra queste cose fedeli e uguali, di volta in volta ho deposto e chiarificato a me stessa i miei pensieri, i miei sentimenti più veri. E queste pareti se ne sono fatte custodi, così che, quando rientro qui, tutto il mio passato, tutto quello che sono stata, per cui sono – oggi – quella che sono, mi balza incontro e io ritrovo la mia più completa me stessa”. Le stanze come luoghi d’identità, così come era per Virginia Woolf. Le stanze che contengono le persone care, i luoghi amati e mai più visti, l’eco delle voci, l’ombra dei volti, il senso delle ore vissute. 

 

Antonia invitava sempre i suoi amici a Pasturo. Condividere quel luogo equivaleva a una consacrazione, una benedizione dell’affetto, del suo sentire più intimo. Portare qualcuno a Pasturo era come la silenziosa promessa di un’impossibile separazione. Ma la stanza, le mura tutte della casa amata sono un luogo interiore, il posto dell’emozioni tanto quanto lo sono le montagne là fuori, geografia spirituale, percorso di purificazione. 
Ogni volta che ne riceveva notizia, Antonia si meravigliava delle ascensioni di Tullio Gandez. Lui che andava là sulle sue “montagne sovraumane” che lo facevano sentire al di là di ogni tenebra terrena. E così era per Antonia, perché per Antonia c’era come una sovrapposizione tra montagna e poesia.  Io credo alla poesia, scriveva a Tullio Gandez. Dio non era altro che un Infinito che per essere vivo doveva concretizzarsi incessantemente dentro forme determinate. Tutto è emozione in Antonia Pozzi, tutto è fede laica e desiderio selvaggio di spartire il proprio cammino, di trovare le anime sorelle con le quali condividere “l’ebrezza azzurra” che arriva ogni volta dalle vette del pensiero e della montagna.
Si scrive molto degli amori infelici di Antonia Pozzi. Il suo professore, Antonio Maria Cervi; Remo Cantoni; Dino Formaggio, e poi quel professore di Matematica di cui si fa menzione in una lettera: questa volta un collega quando lei aveva iniziato a lavorare come professoressa di scuola. Un collega di cui non conosciamo il nome; di cui si è persa traccia, perché il giorno dopo il suicidio di Antonia aveva lasciato il suo posto a scuola senza avvisare nessuno. E’ però anche alle anime sorelle intercettate da Antonia nella sua vita che torna costantemente il suo pensiero, e che noi incontriamo spesso tra le righe e le vette  delle sue parole. 
Nell’estate del 1933, Antonia trascorre un periodo in campeggio a Breil con la sua amica Elvira Gandini: lei e Lucia Bozzi, fin dai tempi del liceo, sono le più care amiche di Antonia. “Curva tu suoni / ed il tuo canto è un albero d’argento / nel silenzio oscuro”.  Elvira suona e insieme cantano nella notte. Spesso Antonia trova un momento per scrivere e quelle che compone in quei giorni sono poesie molto diverse tra di loro. C’è la “gioia d’essere nata / soltanto in un mattino di sole / tra le viole”, ma anche i suoi soliti presentimenti, la solitudine che la aspetta, i pensieri foschi all’orizzonte che solo una mano amica può placare. Antonia è tornata a Pasturo dopo la vacanza con Elvira. Un sabato notte, con la luna che inondava tutta la valle, è salita sulla Grigna. Era su prima dell’alba, sola sulla vetta. Dopo un po’ la nebbia aveva preso a diradarsi e aveva visto il Cervino. Nella lettera che scrive a Elvira lo chiama “il nostro” Cervino. E lì, con quella immagine negli occhi, Antonia ripensa all’amica, alle loro sere in alta montagna, alla armonica di Elvira che sembrava dialogare con i lumi dei pastori al pascolo. E allora in quella lettera bellissima, piena di nostalgia e giovinezza, Antonia fa una cosa altrettanto luminosa: la ringrazia. Ha il candore della neve, una genuina freschezza. Grazie per quelle sere, grazie per quella bontà. Le rinnova l’invito a scambiarsi versi e parole, anche se ancora non le convincono pienamente; anche se sono incompleti, monchi. Non è necessario pensare a finire, scrive. “Che la montagna è la prima che ci insegna a durare nonostante gli squarci e gli strazi”. Durare nei nostri sentimenti, nel legame con le anime che consideriamo sorelle. Nel credere a una forma di purezza che è la nostra montagna interiore. La nostra ricerca del vero, la nostra bellezza

 

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