Proteste contro il white privilege in Sud Africa, agosto 2020 (EPA/NIC BOTHMA)

Il nuovo antirazzismo trascendentale e la sua dottrina del peccato originale

Guido Vitiello

Come avrei potuto rendermi complice dello schiavismo o dell’apartheid, se non ero ancora nato? Il “white privilege” senza redenzione

Mai avrei pensato che le antiche dispute teologiche e scritturali sul peccato originale potessero tornare di stretta attualità. E invece, vivi e impara. Qualche settimana fa ho letto il libro del linguista John McWhorter, “Woke racism”, e mi sono dovuto ricredere. Non che sia un bel libro, a onor del vero. La tesi principale è che l’antirazzismo della terza ondata sia – in senso letterale, non traslato o metaforico – una religione. Con i suoi profeti conferenzieri, i suoi testi sacri best-seller, le sue formule devozionali ridotte a slogan, i suoi sacramenti (che si riducono alla penitenza) e i suoi gesti rituali, il più celebre dei quali è il taking the knee, l’inginocchiamento pubblico. Togli il King da Martin Luther King, dice in buona sostanza McWhorter, e ti ritrovi con Martin Lutero, e con un altro di quei revival religiosi di cui la società americana è da sempre prodiga. La tesi è debole, diciamo pure che è una scoperta dell’acqua calda, dove l’acqua calda sono secoli di commerci leciti e illeciti tra i regni confinanti di Cesare e di Cristo, fino alle “religioni politiche” del Novecento totalitario.

 

Tra le molte analogie un po’ forzate, tuttavia, ce n’è una che merita di esser guardata più da vicino. Il nuovo antirazzismo, dice McWhorter, ha elaborato la sua dottrina del peccato originale. È il “white privilege”, il privilegio bianco; che innegabilmente esiste, ma che oggi è teorizzato in termini ben poco laici: “Si nasce segnati dal peccato originale; allo stesso modo, essere bianchi è essere nati con la macchia di un privilegio immeritato”. Una vita di ravvedimento operoso – e in questo i nuovi dottrinari sono dei cupi pelagiani senza promessa di redenzione – non basta a ripagare il debito. Al penitente non resta che mettersi sotto l’ala degli Eletti come Ibram X. Kendi o Robin DiAngelo, il cui best seller “White fragility” è agli occhi di McWhorter “un manuale sul peccato originale non più sconcertante del Nuovo Testamento”.

 

Le analogie sono lampanti. Ha scritto un grande teologo gesuita, Henri Rondet (“Il peccato originale e la coscienza moderna”, 1967) che il sottinteso di tutte le obiezioni moderne contro il peccato originale è la risposta dell’agnello della favola di Fedro al lupo che lo accusa di aver sparlato di lui sei mesi prima: “Come avrei potuto farlo, se non ero ancora nato?”. Rondet cita una pagina del filosofo Gabriel Séailles, che nei primi del Novecento accusava Dio di essere un “cattivo logico che confonde il genere con l’individuo, ancor più cattivo giudice che colpisce a caso il colpevole e l’innocente”. Un tomista avrebbe potuto rispondere a Séailles che occorre distinguere il peccato come atto dal peccato come stato, e che se il primo fu opera del solo Adamo all’origine dei tempi, il secondo riguarda tutto il genere umano dopo la caduta. Ebbene: il “white privilege”, nel modo in cui lo declinano questi cattivi logici e pessimi giudici, è una variazione sul peccato come stato. Come avrei potuto rendermi complice dello schiavismo o dell’apartheid, se non ero ancora nato? Tuo padre, tuo nonno e il nonno di tuo nonno vi parteciparono, risponderà il lupo, e il fatto che tu non sia esplicitamente razzista in pensieri, parole, opere e omissioni non ti riscatta dal razzismo come stato, derivante dall’esser nato bianco in una società che i tuoi antenati bianchi hanno plasmato a proprio vantaggio in tutte le sue istituzioni, in tutte le sue ideologie, in tutti i suoi schemi di pensiero consci e inconsci. La “whiteness” diventa insomma un grande a priori dell’uomo bianco, un sistema operativo installato alla nascita che non può essere formattato e sostituito. Più che di razzismo sistemico, si potrebbe parlare kantianamente di razzismo trascendentale.

 

Per capire la logica del nuovo antirazzismo e di altre famiglie dell’attivismo identitario, tuttavia, più delle analogie con la teologia contano le differenze. Se il peccato originale accomunava tutto il genere umano sotto gli occhi di Dio, nozioni come il “white privilege” – o come il patriarcato segnato dalla “cultura dello stupro” di cui parla il femminismo più recente, che funziona concettualmente in modo analogo – riguardano alcune categorie di persone sotto gli occhi di altre categorie di persone. Dunque si prestano a giochi psicologici e ideologici di varia natura, non sempre giocati senza malizia, che hanno per effetto di mettere l’interlocutore in posizione di minorità senza dargli la possibilità di uscirne. In parole povere: ti do del razzista, ma non è a te come individuo che mi rivolgo, perché il tuo razzismo si annida in uno strato del tuo essere che è per te pressoché inattingibile. Dunque non devi piccarti, devi solo metterti umilmente in ascolto, perché le tue resistenze e i tuoi tentativi di scagionarti non fanno che ribadire la tua partecipazione alla colpa, e la tua riluttanza orgogliosa a fartene carico. Proprio come il peccato originale. Salvo che, quando non sei sotto gli occhi di Dio, sei sotto gli occhi di un Inquisitore.
 

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