Come si alimentano le bolle ideologiche

Guido Vitiello

Uccidere il confronto in base a un’idea errata di democrazia uccide la democrazia. Ecco perché non c’è da aspettarsi nulla di buono da un sistema politico in cui le conversazioni mancate stanno diventando la regola

Se la democrazia, come voleva il filosofo John Dewey, comincia nella conversazione, il minimo che si può dire è che le nostre democrazie al tempo dei social network non scoppiano di salute. A onor del vero non esiste un’età dell’oro da rimpiangere, e se esiste è decisamente troppo lontana, come il 1858 dei “Great Debates” tra Lincoln e Douglas a cui si richiamava Christopher Lasch nella “Ribellione delle élite”, libro scritto in un’epoca – la metà degli anni Novanta – in cui Lincoln metteva ancora quasi tutti d’accordo e non aveva reputazione di schiavista cancellabile. Qui da noi, al massimo, rimpiangiamo la beneducata “Tribuna politica” in bianco e nero di Jader Jacobelli, ma il fantasma di un antenato vale l’altro quando è la miseria del presente che si vuole illuminare.

 

Negli stessi anni in cui Lasch lamentava la decadenza dell’arte della discussione pubblica, la linguista Deborah Tannen, specialista dell’analisi della conversazione, pubblicava un saggio che sarebbe il caso di rileggere oggi: “The argument culture. Stopping America’s war of words” (Ballantine Books, 1998). Gli Stati Uniti, sosteneva Tannen, sono diventati una nazione iperpolarizzata e litigiosa, in cui ci s’impunta per partito preso a cercare due campane su ogni argomento, trasformando anche le cose più ovvie in nozioni controverse. Ricordava le ammirevoli resistenze della storica Deborah Lipstadt, autrice di “Denying the Holocaust”, che si rifiutava di condividere un palco o uno studio televisivo con i negazionisti della Shoah. “Non crede che gli spettatori abbiano diritto ad ascoltare l’altra parte?”, le domandò candidamente un produttore, piccato dal suo rifiuto. 


Il libro di Tannen registra perfettamente lo stato delle cose negli anni Novanta, quando la discussione pubblica era modellata dalle esigenze e dai formati della televisione commerciale – l’epoca che, qui da noi, si inaugura con il completo marrone di Occhetto e si chiude, idealmente se non praticamente (in tv per molti versi dura ancora), con il rifiuto di Berlusconi di fare un dibattito elettorale con Rutelli. La Seconda Repubblica, insomma. 


Dei social network c’erano a malapena le avvisaglie, e infatti Tannen dedicava alle email e ai primi forum di discussione online il suo capitolo sulle “aggressioni tecnologicamente potenziate”. L’isolamento in una bolla e l’assenza del faccia a faccia, pronosticava, avrebbero reso le nostre conversazioni ancora più litigiose. I ventitré anni successivi si sono incaricati di confermare alla lettera le sue previsioni. C’è però anche un’altra deriva, che Tannen non aveva potuto prevedere: è l’estensione indebita del “modello Lipstadt” a molte conversazioni cruciali del nostro tempo. In breve: puoi sottrarti a qualunque dibattito, purché tu riesca ad assimilare il tuo antagonista al caso-limite del negazionista della Shoah, ossia al simbolo dell’indegnità morale assoluta. E’ una “reductio ad Hitlerum” non tanto logica, quanto pragmatica: equiparando, nel trattamento, il sostenitore di una tesi avversa al negatore delle camere a gas, non solo sei esonerato dall’incombenza di sottoporre le tue idee al vaglio di una discussione, ma hai anche una ragione morale plausibile, un alibi per la tua diserzione. 


E’ ciò che osserviamo sempre più spesso con il ritornello del #nodebate, con la pratica del deplatforming, con l’assimilazione iperbolica delle parole alle violenze (“words are violence”), con la teorizzazione dei “safe spaces” dove non si rischia di essere sottoposti al potenziale traumatico delle idee sgradite, con la migrazione in altri ambiti del linguaggio usato per la Shoah (l’accusa di “negazionismo” lanciata ormai a qualunque proposito; o l’idea, per esempio, che coltivare dubbi sulla nozione di identità di genere equivalga a “cancellare l’esistenza” di intere categorie di persone, quasi un atto di genocidio intellettuale). 


Nessun dibattito pubblico sano può sopravvivere se si fa dell’eccezione la regola, se si generalizzano criteri che dovrebbero valere solo per i casi-limite com’è appunto il negazionismo della Shoah. Rifiutare la discussione in nome dell’eguaglianza o della protezione delle minoranze, affossare la democrazia della conversazione in nome di un’idea malintesa di democrazia sostanziale è un peccato contro lo spirito della democrazia, e il peccato contro lo spirito è per definizione imperdonabile. Seguendo questa deriva, ogni bolla ideologica si autoalimenta e si gonfia al riparo dagli spilloni argomentativi che potrebbero farla scoppiare. E in effetti una parte dell’attivismo contemporaneo fa pensare a una corsa con l’uovo nel cucchiaio: si prende un’idea, spesso dal guscio fragile, e la si protegge dagli urti delle idee contrarie, sperando, a fine tragitto, di depositarla direttamente al traguardo finale, quello delle leggi e delle istituzioni. E’ una deriva che Tannen non aveva immaginato; ma se la democrazia comincia nella conversazione, non c’è da aspettarsi nulla di buono da una democrazia delle conversazioni mancate.

Di più su questi argomenti: