La pandemia come il nazismo: l'abuso delle iperboli da psicodramma

Guido Vitiello

I no vax vestiti da deportati nei lager, il green pass accostato alla stella di David, le accuse di negazionismo a chi minimizza il virus. Assistiamo alla capitolazione della storia all’isteria: cosa diavolo ci prende? Giochiamo al 1943 per illuderci di dare ancora un senso al nostro tempo

Guerrieri, giochiamo a fare la guerra? La certificazione verde e la stella gialla. I manifestanti di Novara con la pettorina a strisce bianche e grigie come la divisa dei deportati dei lager nazisti. I filosofi che accostano il green pass alle leggi razziali, quelli che evocano il giuramento di fedeltà al regime a cui solo dodici professori coraggiosamente si rifiutarono. Le accuse di negazionismo a chi minimizza la gravità del virus, o di collaborazionismo a chi non si vaccina. Cosa diavolo ci sta succedendo? E’ la capitolazione della storia all’isteria, per usare una bella formula coniata da Alvin H. Rosenfeld quarant’anni fa. Il suo bersaglio polemico era la poetessa Sylvia Plath, né ebrea né tantomeno ex deportata, che aveva proiettato le sue private nevrosi famigliari sullo sfondo epico della Shoah, facendo indossare al suo io lirico una divisa da sopravvissuta immaginaria, con un effetto di tragica sproporzione.

 

Ma era solo un’iperbole, la sua? E sono solo esagerazioni cialtronesche quelle che da mesi spuntano nelle nostre cronache assai meno poetiche? In questo “sottile latrocinio” della memoria il critico George Steiner, con intuizione da grande moralista, si arrischiò a vedere qualcosa di più oscuro e inconfessabile. Latente nella sensibilità di Sylvia Plath, come in quella di molti di noi che ricordano solo per mezzo dell’immaginazione, gli pareva di intravedere “una spaventosa invidia, un oscuro risentimento per non esser stati lì, per aver mancato il rendez-vous con l’inferno”. Ma come si può invidiare la più terribile delle sciagure?

  
Facciamo un salto indietro di un anno preciso. E’ il 20 novembre del 2020 quando lo scrittore Antonio Scurati consegna al Corriere della Sera alcune pagine del suo diario della pandemia. Ci attende un secondo inverno di resistenza, annuncia Scurati. Avvista i primi segnali partigiani nei baristi di Milano: “Guardali nella loro dignitosa, caparbia laboriosità, allineare sotto le cupole di vetro le brioche vegane con la stessa cura con cui i loro padri e nonni coltivarono patate negli orti di guerra”. Dubito che i padri e i nonni della Seconda Guerra Mondiale, che in mancanza di meglio mangiavano anche i gatti randagi, si sarebbero fatti scrupolo per gli eventuali ingredienti animali presenti nelle loro brioche immaginarie. Ma anche qui, non facciamoci distogliere dall’incongruenza logica e storica dell’iperbole e concentriamoci piuttosto sulla sua piena congruenza esistenziale. Nel 2006 Scurati pubblica il saggio “La letteratura dell’inesperienza”. L’inesperienza del titolo era definita come “l’indigenza di un tempo opulento”, il giogo morbido a cui siamo sottoposti noi abitanti di quella parte di mondo fortunata in cui la sofferenza e la guerra arrivano solo come esangui astrazioni mediatiche. Anche gli uomini del primo Novecento conobbero questa deprivazione, e vagheggiarono proprio nella guerra “il momento di massima intensificazione vitale, l’attimo di plenitudine esperienziale che li avrebbe riscattati dall’inanità delle loro routine quotidiane”, salvo constatare che dalle trincee si rientrava ben poveri di esperienza comunicabile. Come sottrarsi alla stretta morbida ma soffocante di un tempo in cui si vive sicuri, pagando per questa sicurezza il pegno dell’insensatezza, della trivialità, della noia? Il pendolo del nichilismo ci fa oscillare da un secolo tra il cinismo blasé e la malafede delle tentazioni totalitarie o guerresche. Insoddisfatti del primo, ma non tentati seriamente dalle seconde (che sono oltretutto scomodissime), abbiamo escogitato una soluzione di compromesso: lo psicodramma. 

 
Il Covid ci consente di giocare al 1943 senza i fastidi del 1943, tra cui le brioche a base di felino. Ed è forse questa la chiave migliore per decifrare le nostre quotidiane iperboli. Non sono solo forme della “reductio ad Hitlerum”, o piccoli choc pubblicitari per penetrare la spessa coltre d’indifferenza e d’insignificanza che avvolge la nostra infosfera. Non sono neppure timori ordinari espressi in forma eclatante. Sono, più che paure, desideri inconfessabili, bovarismi retrospettivi, segrete aspirazioni a vivere in forma indolore la sacra rappresentazione della lotta al nazismo, il nostro mito negativo delle origini, quando tutto aveva un significato limpido, quando ogni giorno era questione di vita o di morte, e la vita offriva occasioni di quella forma piena dell’esperienza che è l’azione eroica. L’altroieri a Milano Liliana Segre, che al rendez-vous con l’inferno dovette presentarsi davvero, ha usato la parola più appropriata per questo psicodramma: “Un giornalista mi ha chiesto cosa rispondo a quei No vax che si sono vestiti, in parte, da prigionieri dei lager, e io vorrei approfittare di questo attimo per dire che si risponde: ‘silenzio’”.

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