Elaborazione grafica di Francesco Stati 

Roma Capoccia

L'Inferno alle Scuderie del Quirinale, una mostra magnifica

Andrea Venanzoni

L'esposizione, curata da Jean Clair e in esibizione fino al 9 gennaio 2022, percorre, risalendo, come a voler riveder le stelle, le epoche e gli stili, dal medioevo alla modernità, senza esclusioni di espressività, generi, sensibilità creative

“Se il mondo fosse chiaro, l’arte non esisterebbe”, ha scritto Camus ne Il mito di Sisifo. Ed è il primo pensiero a solleticare la mente mentre ci si immerge tra le sale delle Scuderie del Quirinale, per contemplare le 232 opere che compongono la monumentale mostra “Inferno”, curata da Jean Clair e che sarà in esibizione fino al 9 gennaio 2022. Ideata per celebrare i settecento anni dalla morte di Dante Alighieri, “Inferno” è divenuta una mostra-mondo che proprio come il Lucifero della Divina Commedia fagocita e divora il senso del mondo, proponendo riflessioni che vanno oltre l’arte e la letteratura. Accanto infatti alla esibizione, sono stati pensati degli incontri e dei seminari sul “male” nella storia, pulviscolarmente diffusi in varie ambientazioni romane, con filosofi come Byung-chul Han, ecclesiastici come Monsignor Ravasi, magistrati come Carla Del Ponte e il vicepresidente della Corte costituzionale Giuliano Amato, letterati come Walter Siti, Nicola Lagioia, Giulio Mozzi, accademici come Eva Cantarella, Massimo Ammaniti e Eyal Weizmann, autore questi dello straordinario “Il minore dei mali possibili”, straordinaria riflessione su una autentica necro-economia, quella dei danni collaterali da guerra.

“Inferno” raccoglie e dipana, come un incandescente bandolo, il significante, allegorico, iconografico, psicologico, delle sfere ctonie: rappresentazioni di una liturgia profana, di una sacralità rovesciata, con lo sguardo cupo e insondabile del “Lucifero” di Franz von Stuck, i cui occhi accesi e al tempo stesso abissali si appuntano sul visitatore, percorso da un fremito di inquietudine. Ed è l’inquietudine, quello stesso sentimento che Maurice Blanchot descrisse come la consapevolezza della solitudine dell’uomo al cospetto della grandezza del cosmo, che attanaglia le viscere e il profondo della mente, con un moto riflesso junghiano, quando si osservano i lineamenti della monumentale Porta dell’Inferno scolpita da Auguste Rodin o la altrettanto monumentale tela di Gustave Dorè che illustra Virgilio e Dante nel IX Girone dell’Inferno. La mostra percorre, risalendo, come a voler riveder le stelle, le epoche e gli stili, dal medioevo alla modernità, senza esclusioni di espressività, generi, sensibilità creative: il Botticelli della sinuosa e serpentina Voragine dell’Inferno, Beato Angelico, Jan Brueghel, Anselm Kiefer, Goya, sono decine gli artisti convogliati da musei di ogni latitudine.

E avanzando, con gli occhi colmi di questa gioiosa ebbrezza luciferina, snudando i propri sentimenti in una insondabile emozione, viene alla mente la frase di Bukowski, “sulla via per l’inferno c’è sempre un sacco di gente, ma è comunque una via che si percorre in solitudine”: perché passando in rassegna le opere esposte, per quante persone si possano trovare in quelle sale, per quanto si voglia fare conversazione, rimane il senso di una riflessione cupamente interiore e solitaria. Ricorre in questo novembre un altro anniversario che pure si sposa e fonde armonicamente con il gelo carnicino dell’inferno: quello dei duecento anni dalla nascita di Fëdor Michajlovic Dostoevskij, l’11 novembre del 1821. E per il grande scrittore russo, l’inferno non era soltanto la promessa di un castigo post-mortem ma la grande possibilità di una condanna in vita, da scontare nel trascolorare appunto solitario della esistenza. “La sofferenza di non poter più amare”, come scrisse ne I fratelli Karamazov. E la grandezza, e la gotica bellezza di questa mostra, è il suo essere scarsamente rassicurante: ormai, le mostre d’arte nell’immaginario collettivo hanno sublimato e sostituito l’aperitivo annoiato da fine settimana, mentre qui regna la bellezza della inquietudine, la realtà corporea e umana del senso del male. Perché davvero, come insegnava Sade, per l’uomo non c’è altro inferno che la stupidità e la malvagità dei propri simili.

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