Shylock interpretato da Al Pacino, nella trasposizione cinematografica del Mercante di Venezia diretta da Michael Radford (2004)

Il Foglio weekend

Usurai o banchieri. Gli ebrei, le cambiali e il parto del capitalismo

Michele Magno

Altro che avidi e collerici. I molti pregiudizi da smontare, tra storia e religione, rileggendo Shakespeare e Montesquieu. Un saggio

Il mercante di Venezia” (1596-1598) è una delle opere teatrali più discusse e controverse di William Shakespeare. La sua trama ruota attorno a una singolare circostanza. Shylock, facoltoso usuraio ebreo, odia – ricambiato – i cristiani. Tuttavia, concede un prestito a Bassanio di tremila ducati con la fideiussione, come si direbbe oggi, del suo amico Antonio. Ma, se non sarà restituito entro tre mesi, chi lo ha garantito dovrà risarcire il danno con una libbra di carne del proprio corpo. La buona sorte volta le spalle ad Antonio, le navi che trasportano tutte le sue ricchezze si perdono in un naufragio. Shylock allora pretende che la clausola venga onorata. Il sistema economico dell’epoca – siamo nel XVI secolo – faceva ampio uso di contratti sulla parola; pur essendo talvolta registrati, decisiva era la parola data a conferma del proprio impegno. I trasferimenti di denaro avvenivano nel modo seguente: “Chi faceva un pagamento compariva di persona davanti al banchiere, che stava seduto dietro a un banco sotto il portico di una chiesa di Rialto, col suo registro aperto davanti. Il pagatore incaricava oralmente il banchiere di effettuare un trasferimento sul conto della persona a cui era destinato il pagamento” (Frederic C. Lane, “Storia di Venezia”, Einaudi, 2015). A Rialto, dunque, cuore pulsante dei commerci della Repubblica marinara, ogni giorno si facevano mille affari senza guarentigie governative, perché una buona reputazione era condizione necessaria e sufficiente. Per altro verso, fuori dal teatro i sudditi di Elisabetta I trattavano gli ebrei come animali, creature umane dimezzate, alle quali non si poteva dare fiducia. In qualche misura Shakespeare accentua questi pregiudizi, trasformando Shylock in una specie di cannibale.

 

Tutto farebbe pensare che il Doge dichiari il contratto immorale e, di conseguenza, nullo. Ma appena uno dei personaggi minori pronostica questa conclusione, Antonio subito obietta: “Il Doge non può fermare il corso della legge”. Spiega, poi, che questa è una delle ragioni che stanno alla base della prosperità di Venezia: “Se agli stranieri venissero negati / I benefici goduti qui a Venezia / Lo stato ne verrebbe gravemente screditato, / Dacché il commercio e i profitti della città / Provengono da tutte le razze”. Il Bardo solleva così l’eterna questione dei rapporti tra economia e etica. Antonio si spinge ancora oltre: in ragione dei “benefici” i patti vanno rispettati, al di là della moralità di chi li sottoscrive. Perfino il cannibalismo deve essere tollerato, se entrambi i contraenti sono d’accordo. Così concepito, il contratto appare come una forza in grado di generare autonomamente i propri diritti, le proprie rivendicazioni e i propri privilegi: nessuna legge superiore, nessuna autorità esterna può interferire con le sue procedure.

Di fronte al Doge che cerca di farlo recedere dal suo proposito, Shylock reagisce schernendolo con insolenza perché sa di non avere torto. Questo è ciò che intende Porzia, la ricca ereditiera che Bassanio vuole sposare, quando afferma che “a Venezia non c’è potere che possa modificare una legge in vigore”. E la legge è l’accordo che Antonio e Shylock hanno stretto attraverso una trattativa verbale. Osserva acutamente Richard Sennet che Shakespeare stabilisce in tal modo un collegamento che cominciava a prendere forma nel Rinascimento: quello tra libertà di parola e inviolabilità del contratto. La libertà economica derivava dalla libertà di parola (“Lo straniero”, Feltrinelli, 2016).

Lo stereotipo dell’ebreo avido, collerico e vendicativo ha esposto il dramma shakesperiano all’accusa di antisemitismo. Un secolo e mezzo più tardi, Montesquieu la rovescia. Nel suo “Spirito delle leggi” (1748), gli ebrei fungono da apripista della trasformazione del commercio da attività disprezzata, associata all’usura e al prestito su pegno, a professione degna e stimata. Intorno al periodo dei primi viaggi transoceanici – scrive – il commercio cessò di essere “soltanto la professione della gente bassa” e perciò campo esclusivo di “una nazione allora coperta d’infamia” (e qui intende gli ebrei), e “rientrò, per così dire nel seno della probità” (libro XXI, cap. 20). In questo contesto, per lui i discendenti di Abramo si collocano alla testa di un’autentica rivoluzione politica e culturale, per cui, per la prima volta, il commercio “poté eludere la violenza”. Come fecero a innescare questo cambiamento colossale e ad avviare l’Europa verso una società mercantile moderna, sicura e laica? A questa complessa domanda Montesquieu dà una risposta solo in apparenza semplice: “Inventarono le lettere di cambio”.

La maggior parte degli studi sul pensatore francese glissa sul significato di questa affermazione,  sostiene Francesca Trivellato in un volume di somma erudizione: “Ebrei e capitalismo. Storia di una leggenda dimenticata” (Laterza, ottobre 2021, 368 pagg., 25 euro). Secondo la docente di Princeton, le lettere di cambio, o cambiali, rappresentavano nell’Europa preindustriale ciò che nella società capitalistica odierna costituiscono i titoli finanziari più sofisticati. Nate alla fine del Duecento per facilitare il commercio a lunga distanza, consentivano di trasferire fondi all’estero eliminando i rischi legati al trasporto di oro e argento. Col tempo diventarono non solo mezzi di pagamento, ma anche strumenti di speculazione. Truffe, sotterfugi, opacità: questi timori per gli usi impropri delle cambiali spinsero i teologi a elaborare rigidi schemi per separare quelle lecite da quelle illecite, perché infrangevano i divieti contro l’usura. Di fronte a una tale incertezza, ricorrere al repertorio cristiano del presunto oligopolio ebraico del credito era quasi un riflesso condizionato.

 

Fu così che a metà Seicento, quando la circolazione delle lettere di cambio raggiunse il suo apice, cominciò a farsi strada l’idea che fossero state inventate – insieme alle polizze assicurative – dagli ebrei espulsi dalla Francia durante il Medioevo, ansiosi di mettere in salvo le loro ricchezze. Una leggenda, appunto, per un verso favorita dall’invisibilità delle cambiali, che spostavano somme di denaro astraendo il valore monetario da quello materiale; e, per l’altro, dall’invisibilità degli ebrei, percepiti come una presenza capillare e influente ma anche nascosta e indecifrabile. Una leggenda, inoltre, che deve la sua risonanza internazionale a un testo trascurato inspiegabilmente dagli specialisti: “Le us et coustumes de la mer”, una raccolta di norme di diritto marittimo curata da Étienne Cleirac e pubblicata a Bordeaux nel 1647.

Il suo Medioevo è un misto di realtà e finzione. Come ricorda Trivellato, allora si sapeva che l’assicurazione delle navi e la cambiale erano prerogativa dei grandi mercanti-banchieri cristiani, ossia della classe dirigente dei Comuni italiani e del nord Europa. All’epoca i prestatori ebrei si limitavano per lo più ad accordare prestiti ai poveri in cambio di pegni e ai principi in cambio della facoltà di risiedere, pur con molte restrizioni, nello Stato. I banchieri ebrei bassomedievali accesero la fantasia di Cleirac poiché vedeva in loro l’incarnazione degli usurai palesi (“usurarii manifesti”), coloro che prestavano in pubblico, tenendo bottega in spazi designati, portando segni distintivi sui loro abiti, non diversamente dalle prostitute. L’immagine che Cleirac aveva degli ebrei era prigioniera del passato, ma il suo successo va ascritto alle preoccupazioni, assai diffuse tra i suoi contemporanei, relative alla crescente impersonalità degli scambi di mercato. Un fenomeno che minacciava di sgretolare gerarchie sociali consolidate e forme di autorità di antica data, se non addirittura di ispirazione divina.

Come abbiamo visto, sotto la penna di Montesquieu l’invenzione attribuita ai traditori di Cristo diventa invece un simbolo della modernità. Un despota, magari per placare sentimenti popolari antigiudaici, poteva essere tentato di confiscare terre, case, lingotti o merci, ma certo non pezzi di carta che non era in grado di riscattare. Una volta limitati nel loro potere di depredare, ai sovrani non restò che comportarsi “con maggiore saggezza di quanto non avrebbero pensato essi stessi”; così, infine, l’Europa poté cominciare “a guarire dal machiavellismo e si continuerà a guarirne tutti i giorni”. Nel frattempo, sempre secondo Montesquieu, la chiesa, che equiparava il commercio alla “mala fede”, perse la sua presa sulla società e “i teologi furono obbligati a ridurre i loro princìpi”. Con l’ascesa dello spirito del commercio, la moderazione trionfò nelle sfere del governo e dei costumi sociali: “È una fortuna per gli uomini trovarsi in una condizione tale che, mentre le passioni ispirano loro l’idea di essere malvagi, il loro interesse è non esserlo” (XXI, 20).

L’interpretazione della genesi della società mercantile tracciata da Montesquieu esercitò una forte influenza in Francia e all’estero, fornendo la più autorevole formulazione della teoria del “doux commerce”: “Il commercio guarisce dai pregiudizi distruttori, ed è quasi una massima generale che ovunque vi sono costumi miti, v’è commercio; e che ovunque v’è commercio, vi sono costumi miti” (XX, cap.1). Non fortuitamente, dopo la pubblicazione dello “Spirito delle leggi”, la cambiale cominciò a comparire accanto alle tre grandi invenzioni – la stampa, la bussola e la polvere da sparo –  che, sulla scia di Francesco Bacone, erano considerate le levatrici del mondo moderno.

 

Concludo. Ragioni di spazio non possono rendere giustizia alla monumentale ricerca di Trivellato, originale quanto impeccabile ricostruzione del dibattito su un fenomeno che, con la sua miscela esplosiva di economia e religione, ha accompagnato il parto del capitalismo. Ma chi lo scrutasse con le lenti del “pawnbroker”, il prestatore a pegno descritto nei romanzi inglesi dell’Ottocento o nei film hollywoodiani (per tutti, “L’uomo del banco dei pegni” di Sidney Lumet), si metterebbe però fuori strada. Non sarebbe in grado, infatti, di comprendere fino in fondo questo “Nosferatu della società cristiana”: vampiro terrificante, un succhiatore di denaro spesso paragonato all’ebreo deicida e profanatore dell’ostia. Quel fenomeno infatti ha più facce. In un mondo in cui sullo scudo d’oro coniato da san Luigi (1214-1270) era inciso “Nummus vincit, nummus regnat, nummus imperat” (Il denaro è vincitore, è re, è sovrano); e in cui l’avarizia – ossia la cupidigia, peccato borghese di cui l’usura è figlia – spodesta dal primo posto tra i sette peccati capitali la superbia – ossia l’orgoglio, peccato feudale – l’usuraio diventerà un personaggio corteggiato e detestato, potente e fragile.

Un radicato pregiudizio storico lega strettamente l’immagine dell’usuraio a quella dell’ebreo. Trivellato lo smonta in una decina di pagine che dovrebbero essere lette in tutte le nostre scuole. Beninteso, anche l’usuraio cristiano era un peccatore. L’usura era un furto, dunque l’usuraio era un ladro. Ma era un ladro speciale, perché rubava a Dio. Egli vendeva il tempo che intercorre tra il momento in cui prestava il denaro e il momento in cui veniva rimborsato con l’interesse. Ma il tempo non appartiene che a Dio. Ladro di tempo, l’usuraio era un ladro del patrimonio di Dio. Ma una cosa erano le esecrazioni dottrinarie, un’altra la realtà dei fatti. Nelle omelie la ripulsa dell’usura era totale. Nella pratica, essa era osteggiata con prudenza e moderazione. Era addirittura tollerata, a patto che il tasso d’interesse richiesto non fosse troppo superiore a quello di mercato. La condanna dell’usura si avvicinava così a quella condanna dell’eccesso che nel diritto canonico si ritrova nell’espressione “laesio enormis”, danno enorme. Questo concetto di moderazione non era che un aspetto particolare dell’ideale di misura a cui si ispiravano i nuovi valori e i nuovi stili di vita della nascente società mercantile. Come ha scritto Jacques Le Goff, la storia sono gli uomini, e “gli iniziatori del capitalismo sono gli usurai, mercanti dell’avvenire” (“La borsa e la vita. Dall’usuraio al banchiere”, Laterza, 2003).

Ciò che tratteneva le loro energie non erano le scomuniche papali. Era “la paura, la paura angosciosa dell’inferno”. In una società in cui ogni forma di coscienza era anzitutto una forma di coscienza religiosa, la speranza di sfuggire all’inferno grazie al purgatorio permetterà all’usuraio di essere un protagonista del passaggio dal feudalesimo al capitalismo.

 

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