Il sindaco di Roma Virginia Raggi (foto LaPresse)

Rileggere “Il mercante di Venezia” per capire in che situazione è Raggi

Antonio Gurrado
Shylock, Antonio e Porzia in Campidoglio. Cosa capirebbe il sindaco di Roma sul contratto che, stando ai giornali, quantifica in centocinquantamila euro di multa il danno d’immagine procurato al Movimento 5 stelle da eventuali eletti dissenzienti.

Se, oltre a “Il piccolo principe” e alle inchieste su Mafia Capitale, Virginia Raggi avesse indicato fra le proprie letture preferite anche “Il mercante di Venezia”, avrebbe forse maggiore contezza della situazione in cui versa oggi; specialmente per quel che concerne il contratto che, stando ai giornali, quantifica in centocinquantamila euro di multa il danno d’immagine procurato al Movimento 5 stelle da eventuali eletti dissenzienti, a insindacabile giudizio dello staff. Un capestro così ingente vincola il sottoscrittore a una situazione assimilabile a quella di Antonio nei confronti di Shylock: pagarlo con “an equal pound”, una libbra esatta della propria carne, qualora incapace di garantire la solvibilità del proprio impegno. Tuttavia, per quanto il denaro possa apparire il motore della trama e l’obiettivo lucrativo dello staff, in realtà ciò che più conta nel dramma e nel M5s è il contratto in sé, il suo potere di ingenerare un rapporto inscindibile. “Badi al contratto! Badi al contratto!”, va gracchiando Shylock tenendoci al punto da rifiutare mediazioni, ricompense, ragionamenti: “Voglio il mio contratto, non parlate contro il mio contratto, ho giurato che avrò il mio contratto. Non voglio parole, voglio il mio contratto”. Se gli fanno notare che la libbra non gli servirà a niente, risponde che il capestro è garanzia del rispetto della legge e quindi della libertà cittadina. L’accantonamento del contratto – “di natura strana ma legale”, viene definito nel corso del susseguente processo – consentirebbe a qualsiasi cittadino di venire meno alla parola data: “Ho giurato di ottenere la dovuta applicazione del mio contratto, e se voi la negate ricada la vergogna sugli statuti della città”. E’ una situazione giuridicamente paradossale, che porta Shylock a ritenere il contratto più importante dell’offerta di una somma superiore al credito (“Non la prenderei, vorrei il mio contratto”), di modo tale che il contratto si trasformi da certificazione di uno scambio a strumento fine a sé stesso, isterilito.

 

Né la Raggi trarrà maggior consolazione dall’identificarsi magari in Porzia, la bella ereditiera “legata alle ultime volontà di un padre morto” nonché bislacco, un uomo la cui ossessione pauperistica impone alla figlia di consegnarsi a chi non si lasci abbagliare da scrigni d'oro e d'argento ma scelga con fermezza quello di duro piombo, rigettando lussi e guadagni: “La lotteria del mio destino”, potrebbe dire Virginia come Porzia, “mi vieta il diritto a una scelta volontaria”. Avesse aperto con queste parole la conferenza stampa sulle Olimpiadi, avrebbe ricavato miglior figura, passando per vittima di un ingranaggio (“Badi al contratto!”) anziché per carnefice dei sogni altrui. Del resto, diceva Porzia, “se il fare fosse facile come il sapere ciò che è bene fare, le cappelle sarebbero state chiese e le catapecchie palazzi principeschi”; chi non sa fare, deve giocoforza dichiarare di preferire le catapecchie alla gragnola di mattoni olimpici. Questo velo austero le avrebbe fatto riconoscere, nelle prime parole che Antonio pronunzia, lo stesso presagio di tristezza che poteva leggersi nelle lacrime versate al primo giorno in fascia tricolore: “Veramente non so perché sono così triste, e questa tristezza fa di me un tale inetto che fatico a riconoscermi”. Con “Il mercante di Venezia” in mano, la Raggi avrebbe potuto affacciarsi dal balcone di Palazzo Senatorio declamando: “Io considero il mondo per quello che è: un palcoscenico dove ognuno deve recitare una parte, e la mia è una parte triste”. Non sarebbe stata una citazione.

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