Un pomeriggio nella Kasa dei libri. Che hanno un corpo e un odore

Maurizio Baruffaldi

A Milano, nell'appartamento di Andrea Kerbaker, spazio lirico con 30.000 volumi che i graditi ospiti possono toccare, sfogliare, contemplare e annusare. Tra prime edizioni, copie rare, riviste incomplete e dediche fatte "per scopare"

Tavolette mute dove una volta c’erano librerie. È ipotesi plausibile di un futuro, dove ben quattro sensi sarebbero spinti nell’albo dei ricordi. Per questo, entrando nella Kasa dei libri a Milano, spazio lirico con 30.000 volumi che i graditi ospiti possono toccare, sfogliare, contemplare e annusare, mi sento accolto in una specie di rifugio, dove questi cartacei vengono messi in salvo. Protetti dall’estinzione. Il bibliofilo e animatore culturale di questo appartamento su tre piani è Andrea Kerbaker, scrittore prolifico (ultimo suo "Money", La nave di Teseo) docente alla Cattolica e segretario del Premio Bagutta. Kerbaker scova e porta a Kasa (la kappa è a suo titolo) questi libri da quando aveva 17 anni.

   

Le stanze sono in leggera penombra, i libri (antichi, prime copie, dedicati, rarissimi) sono ovunque: ricoprono le pareti, seminati sui tavoli, impilati a terra e sulle sedie, dove paiono in sala d’attesa. Ordine e spavalderia si confondono. Una delle ragazze che conduce le visite gratuite e su appuntamento, mi suggerisce di posare le mie cose sopra uno scatolone, in un angolo che dimenticherò. I libri fanno perdere l’orientamento, giusto così. Alle 17.00 in punto arriva il padrone di casa. Sorridente, si intuisce la sua predisposizione a stare sulla scena. Gli dico della mia prima intenzione, sui sensi a perdere, e annuisce. “Tutto quello che c’è qui ha come base il corpo libro. E un corpo, oltre ad essere vivo, ti parla, ha una storia. È quella che mi attrae e diverte”.

  

“Vediamo un po’!” e fa una panoramica da falchetto, per poi estrarre un piccolo volume con la copertina lacerata ai bordi, dove è rimasto solo il cartone. ”Paolo Volponi, grande poeta, intellettuale, eccetera... Questo è un libro che sembra mangiato dai topi. L’aveva un signore che lo vendeva a un euro, e dentro c’era questa meravigliosa dedica, scritta da Volponi stesso”. Due pagine piene, come una lunga lettera. Un libro mezzo marcio, perché l’ha preso? “Perché ti chiamano. In qualche modo. Io ci credo. E poi controllo sempre, dentro. Il libro è un multiplo. L’oggetto che c’è nelle nostre mani evoca. Perché era lì? Come ci è arrivato? C’è sempre un passaggio”.

 

Una morbosa e ludica ricerca che gli ha ispirato il breve romanzo "Diecimila. Autobiografia di un libro". A questo punto capisco che le mie domande, scandite su un quaderno d’altri tempi, non servono. Seguirò la scia random di ricordi e rimandi. In fondo anche la mia è una visita guidata. “Spesso è una fidanzata. Un sacco di dediche, che ho di là, di Quasimodo, sono tutte fatte per scopare. Tutte a donne che voleva portarsi a letto. Nobile intenzione. E ci riusciva. Uno scambio come un altro”. Tutta la stanza in cui siamo è riempita di libri con dedica dell’autore, sottolinea. Un intero scaffale è dedicato a Spadolini. “Era il recordman di dediche. A chiunque. Dalla signora che incontrava facendo campagna elettorale, all’ambasciatore belga. Era bulimico. Firmava, con questa grafia enorme. Parole roboanti“. Che gli somigliava. “Sì, esatto”. Ce la ridiamo casareccia. La Kasa ha un decalogo, e al punto 2 recita: "Ogni intervento deve far ridere almeno un paio di volte".

   

     

Cambiamo stanza. Salgono le tapparelle. Vedo il profilo di "Un amore", del Dino Buzzati. Ne comprai una copia trent’anni fa, in una sgangherata bancarella in Brianza. Edizione del 1963, aggiungo per darmi un tono. “Sì, ma temo che nella sua copia questa non ci sia.” E quando lo apre spunta, tipo segnalibro, una patente, con la foto del giovane Dino in brillantina. “L’aveva evidentemente regalata a questa amica insieme al libro. L’ho trovato alla fiera di Sinigaglia”. Resto con Buzzati tra le dita. L’unico libro che ho letto due volte. Un romanzo che osa più di "Lolita" di Nabokov. In una Milano del boom economico, equivoca e labirintica. Forse la stessa da sempre.

  

Mi aggancio al suo "Milano in 10 passeggiate", BUR, uscito quest’anno. Milano è un po’ come i libri, si nasconde, va scovata, e si rivela. E passeggiarla è gesto d’amante. Ma qual è la dedica, che scriverebbe su Milano? “È quella affrescata e ripetuta sui muri di una stanza a pianoterra della Bicocca degli Arcimboldi: ‘Sempre el dovere’. Tremenda, ma Milano è quella roba lì. Qui lo dico e qui lo nego: se non ho il dovere di fare una cosa, un’urgenza, non mi diverto”. Da milanese, condivido. Il dovere mi alleggerisce.

      

Detto questo riparte, io seguo. Si allunga in punta di piedi. “Questa è la prima edizione di ‘Se questo è un uomo’ di Primo Levi. Libro leggendario, storia leggendaria. Viene respinto da Einaudi: Natalia Ginzburg, quindi nessun antisemitismo: di fatto non interessava a nessuno. Siamo nel ‘46”. Forse si voleva rimuovere. “Probabile. Fatto è che Levi trova questo piccolo editore di Torino, De Silva, e lo pubblica. Tiratura modesta, circa 2.000 copie, ne vende poche centinaia, le altre finiscono in un magazzino a Firenze. Nel ’66 vengono alluvionate, e restano solo quelle che Levi ha venduto. Questa nostra ci è stata regalata da un signore, che veniva spesso a trovarci, e che mi disse: 'Mi sembra sia la destinazione giusta'”. Scoprirò che una copia sorella viene venduta intorno ai 2.000 euro. Un volumetto esile con leggera brunitura marginale. Dal contenuto straripante.

  

  

Ogni tanto si affaccia una statuetta, tipo quelle dei presepi, a scandire le pause tra i volumi. Sono animali, bambine, anziane contadine, uomini seduti, che sfogliano o trasportano libri. E tante tazze. Una scatola di Orzoro sopra un tavolino le dimostra non solo ornamentali. Nel corridoio un libro a forma di veliero. Uno a ventaglio. Lampade di varia e bizzarra natura sono seminate come sentinelle.

   

“Su questa parete ci sono solo le opere prime”. Con la sua, "Fotogrammi", ha vinto il Bagutta. “Erano cinque racconti, che Scheiwiller ha avuto la gentilezza di pubblicare. Altri editori no”, sottolinea ironico. “E quando ho vinto il premio, uno di quelli che me l’aveva rifiutato mi ha scritto: Molto belli i tuoi racconti!”. Adesso i racconti come opera prima non li vuole nessuno. “Neanche come opera seconda”.

 

Alle pareti libere ritagli di giornale, locandine d’epoca, dipinti e foto, una con il nostro da giovane, qualche capello in più, braccia conserte e pupille al cielo, dal quale sembra aver ricevuto un buffo suggerimento. “Qui gli stranieri. La cosa migliore è comperare un libro inglese in Francia, e un francese in Germania, perché non hanno mercato e si trovano a poche lire. Anche libri molto importanti. Perché non li legge nessuno.” E apre un volumone. Lo tiene in mano come fosse di vetro. Lo sfoglia con lunghe carezze. E con lo sguardo di chi lo sta vedendo per la prima volta. Li tratta tutti così. “'Il Padrino', in prima edizione americana che là costa un sacco di soldi, io l’ho trovato in una bancarella qua a pochi euro. Chissà come diavolo c’è arrivato?” La domanda ritorna.

  

 

Passo davanti a un leggio ramificato. Alzo gli occhi verso la libreria ondulante, sulla quale grossi volumi antichi paiono sfidare la gravità. Inciampo in un blocco di libri. “Ecco l’Ulisse di Joyce. Esce il 2/2/22, giorno del 40esimo compleanno di Joyce. Un libro inglese, in quell’inglese di Joyce, stampato a Parigi. Follia! Da una macchina Tallone, uno dei più grandi stampatori italiani, che c’è ancora, che vai lì, e te la fa vedere. Un libro che ha una quantità di errori infiniti, e che ogni ristampa riprende uguali. Questa che ho in mano, così, poveretta, è la prima corretta da Joyce. Dev’essere tipo la nona edizione. Dopodiché duemila e passa copie vengono bruciate a New York, perché fa scandalo.” Con Levi, l’acqua della catastrofe naturale, qui il fuoco dell’ottusità umana. Confesso che non ce l’ho mai fatta a leggerlo. Cosa c’è di tanto diabolico in questo libro? “ Beh, c’è molto sesso.” Adesso che lo so, devo riprovarci.

   

Potremmo andare avanti all’infinito, ma alle sei Kerbaker ha un impegno. E poi c’è la voce 3 del decalogo: ‘Nessun incontro dura più di un’ora.’ Manca poco. Una panoramica alla stanza con la mostra su Mastroianni, che si concentra sui film tratti da libri, e passiamo a onorare il suo editore iniziale, Shewiller. Mostra uno dei piccoli libri artigianali. “Rarissimi!”, esclama. “Senta qui, che stampa meravigliosa, il carattere che esce!” Mi fa passare la mano sulla pagina, la sento, la consistenza del carattere. La palpo.

 

Quindi le riviste. Lunghe e magre, abbracciate. “Da queste si giudica se una libreria è buona o no. La rivista devi proprio andartela e cercare, c’è sempre un numero che manca”. Mostra la "Menabò", di Calvino e Vittorini, che definisce meravigliosa, poi il pallido celeste de "Il Conciliatore", periodico milanese dove scrivono i romantici vicini a Pellico e Berchet: stroncato dagli austriaci dopo un anno di vita e tutti in galera. “A me piace che siano incomplete, perché mi diverto di più. In questa, ‘Letteratura’, pubblicano in prima edizione ‘Il pasticciaccio’ di Gadda, e quei numeri mancano, perché i collezionisti gaddiani sono scatenati e radicali. Non esiste altro autore, al di fuori di Carlo Emilio”. Saliamo nell’ultima stanza, dove ci sono libri appesi come lampadari, ma che sembrano planare, e qui termina la nostra ora d’aria buona. “Ma può tornare quando vuole”.

 

Una domanda al volo: l’odore dei libri. “Beh, a volte non è piacevole. Per esempio i libri che arrivano da un paese sudamericano molto umido hanno tutte le macchie, e lo si sente quell’odore lì.” Immagino intenda un vago sentore di muffa. “Quelli che sono stati in casa di fumatori, si sentono eccome. Dopodiché, i libri trattengono gli odori della stanza in cui vivono”. Immagino il cane di famiglia che se li annusa, struggendosi nei ricordi.

 

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