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Il Foglio del weekend

Ode ai francobolli

Enrico Brizzi

Le cartoline resistono, ma trovare il quadratino per spedirle oggi è una missione impossibile. Eppure hanno fatto parte della nostra storia

Spedire una cartolina è divenuto, negli ultimi tempi, un cimento estremo. La difficoltà insita nella missione ha un che di paradossale, ché certo non mancano cartoline sul mercato, né persone care alle quali indirizzare una succinta espressione dei nostri sentimenti sul retro d’una veduta di Piazza San Marco o della Costiera amalfitana; il guaio sta nel fatto che non si trovano più, se non a prezzo di strenue ricerche, gli indispensabili francobolli. La grande maggioranza delle rivendite di sali e tabacchi, infatti, ne risulta sprovvista, e in parecchi di questi esercizi l’innocente ordinazione “un francobollo per l’Italia, per cortesia” provoca reazioni che spaziano dagli occhi levati al cielo all’aperto compatimento, passando per tutta la gamma dell’incredulità e addirittura dell’indignazione. 

In una tabaccheria del centro di Salerno il titolare ci ha fissati corrucciato per un istante interminabile, come gli avessimo richiesto una pipetta in vetro adatta a fumare il crack o il Vhs originale di “Selen puledra in calore”, per poi incrociare perentorio gli avambracci deciso a esorcizzare la nostra impudenza. È servito peregrinare fra tre diverse rivendite prima di ottenere la nostra sospirata affrancatura. Numero e qualità delle traversie affrontate negli ultimi mesi ci inducono a credere che il problema sia generalizzato sull’intero territorio nazionale, come se Poste italiane avesse rinunciato in gran segreto a presidiare città e provincie dal punto di vista delle forniture filateliche, o i rivenditori si rifiutassero per qualche oscuro motivo di tenerle in serbo. Nelle tabaccherie di Matera abbiamo censito trentasette diverse cartoline riproducenti i Sassi – in bianco e nero, virate al seppia, policrome – tutte irrimediabilmente orbate dalla possibilità di essere abbinate al relativo francobollo e dunque spedite. “Credo li abbiano alle Poste” è stato l’unico indizio; ma, siamo sinceri, chi va a Matera per mettersi in coda all’ufficio postale? 

A Venezia, invece, abbiamo girato un paio di sestieri senza trovare altro che servizi di posta privata alloggiati nei negozietti di souvenir, dotati di piccole cassette gialle e sistemi di affrancatura alternativi. Contando il numero enorme di spedizioni effettuate dalla Laguna ai quattro angoli del mondo, deve trattarsi di una discreta quota di mercato. Se per caso ci leggesse un esperto di economia filatelica, forse può aiutarci a spiegare l’arcano. Nel corso di un recente viaggio a piedi attraverso la Sardegna, poi, s’è commessa l’imprudenza di acquistare una cartolina ad Alghero; riproduceva un onesto scorcio dei bastioni aragonesi lambiti da una mareggiata, un’immagine perfetta da inviare a uno storico dilettante come zio Cleto, devoto seguace del professor Barbero e da sempre appassionato d’architetture militari. 

L’assenza del francobollo pareva, lì per lì, rimediabile, ché ci attendeva un cammino di sette giorni, ma si peccava d’ottimismo; benché si siano battuti uno per uno i tabaccai della costa Nord, da Porto Torres a Castelsardo, e da lì attraverso ogni singolo municipio della Gallura, si è trovato il francobollo solo all’ultima tappa, quando ormai avevamo coperto duecentoventi chilometri e ci apprestavamo a salpare per la Maddalena. A quel punto la nostra cartolina con i bastioni aragonesi risultava oscenamente malridotta per via della lunga permanenza dentro lo zaino; non è rimasto che rimediare alla bell’e meglio, e zio Cleto s’è dovuto contentare d’una romantica veduta di Palau nella luce del tramonto. Sempre meglio che niente, ma resta il fatto che qualcosa non quadra: quali prospettive hanno le miriadi di cartoline allineate negli espositori a muro e in quelli girevoli delle località turistiche, se i francobolli si son fatti tanto rari?

Di tanto in tanto amiamo intonare a beneficio della prole una canzoncina intitolata “Il lamento del boomer”, parodia della tradizionale invettiva contro i tempi che corrono. La gioventù di casa sorride comprensiva nel sentirvi inclusa una strofa che riguarda il tristo destino delle cartoline destinate a prender polvere senza poter spiccare il volo, ma non afferra la saudade che si prova nel veder negato il rituale dei saluti scritti a mano, il grave passo dell’affrancatura, la compilazione di un indirizzo mandato a memoria, l’emozionante tuffo a capofitto nel vano riservato a “tutte le altre destinazioni” d’una cassetta postale. Per loro è come rimpiangere i viaggi in dirigibile o il lume a petrolio, per noialtri invece è un apocalisse in miniatura, la fine d’un mondo, un cupo presagio d’estinzione.  Senza bisogno di scomodare i gloriosi pionieri del servizio postale come i Tasso della Val Brembana, responsabili della “sociale e mercantile corrispondenza” sotto la Serenissima e “mastri de’ corrieri” per conto dei Pontefici, è perlomeno dal 1837, quando Rowland Hill riformò l’assetto della Royal Mail in Gran Bretagna, che il francobollo fa parte delle nostre vite. 

In ogni casa del nostro paese, ben si ricorderà, si conservavano a interi foglietti i valori che mostravano il profilo solenne dell’allegoria d’Italia, la corona turrita posata in capo, e più tardi quelli della serie dedicata ai castelli; a ben pensare, ci pare non passasse giorno senza che, facendo ben attenzione a non danneggiarne i dentelli, se ne staccasse almeno uno da 150 lire col profilo violaceo di Miramare lambito dalle pigre onde bronzee del Golfo di Trieste. La corrispondenza era fittissima, la firma sulla cartolina per i parenti un rituale d’iniziazione per i bambini dell’asilo, e già alle elementari si imparava il gusto dello scrivere lettere, non foss’altro che per il piacere di riceverne in risposta. A un bel punto realizzammo che potevamo inviarne ai nostri personali idoli; per quanto ci riguarda, erano la bellissima Cugina Daisy del telefilm Hazzard e il presidente della Repubblica Sandro Pertini. Dopo averlo visto esultare sugli spalti del Bernabeu in occasione del trionfo azzurro al Mundial ’82, ci parve di essere sufficientemente in confidenza da rivolgerci a lui come al nonno di tutti i bambini d’Italia; così, nel settembre successivo, ci spingemmo a scrivergli una missiva d’auguri per il suo compleanno, corredata da un disegno di discutibile qualità che rappresentava una gigantesca torta sulla quale le candeline erano sostituite da piccole pipe; a differenza di quella smorfiosa di Daisy, che si era testardamente rifiutata di darci il sia pur minimo cenno di attenzione, il Presidente rispose. 

Come dimenticare l’emozione di stringere fra le mani, sotto gli occhi dei parenti poco meno che commossi, la busta con l’elegante intestazione del Quirinale? Ci venne sottratta solo il tempo necessario per aprirla con il tagliacarte, quindi fummo liberi di sfilarne il cartoncino scritto da Pertini di suo pugno: “Cordialmente ringrazio dei graditissimi auguri”, ci faceva sapere, e noialtri ci ritrovammo con le lacrime agli occhi per la gratitudine a sfiorarne coi polpastrelli la firma corsiva. Se i francobolli consentivano ai bambini di corrispondere col presidente della Repubblica, era segno che si trattava di oggetti carichi di magia. Una volta scoperto che ne venivano prodotti in ogni paese del mondo, comprese la Guyana e l’isola di Guernsey, diventava praticamente impossibile resistere alla tentazione di possederne in gran numero, classificarli, dar vita a una collezione sistematica. 

Diventammo filatelisti, e se pure si trattò di una breve stagione, riuscimmo a mettere uno accanto all’altro nelle tasche trasparenti del nostro raccoglitore esemplari carichi di scritte cirilliche dedicati ai cosmonauti sovietici e valori statunitensi dedicati all’anniversario dello sbarco sulla luna, una piccola collezione tematica dedicata ai boy scout (la Repubblica di Guinea, se non ci inganniamo, era straordinariamente prolifica in materia) e una seconda, consacrata al meraviglioso giuoco del calcio, celebrato senza risparmio persino dalle poste delle Maldive e del Lesotho. Quando ci piombò addosso l’adolescenza col suo carico di curiosità tutte nuove, ormai la sapevamo abbastanza lunga su lettere e francobolli da intuire l’essenziale: se non volevi perdere di vista per sempre l’incantevole fanciulla austriaca conosciuta sulla Riviera romagnola, o la conturbante figliola d’un collega di tuo padre, calata da Londra con il genitore per una breve vacanza italiana, dovevi trovare il coraggio di domandare loro l’indirizzo

Con la scusa di esercitarci nelle lingue, diventammo amici di penna di una smodata quantità di ragazze, e per portare avanti in maniera accettabile le più sentite fra quelle relazioni, intermittenti e giocoforza castissime, passavamo ore chini sui dizionari. Poi venne l’amore, quello matto e crudele dei sedicenni, e i nostri fogli divennero tormentati, sinceri in maniera disperata; le carte che ricevevamo in risposta talora profumavano, talaltra portavano la traccia inequivocabile di lacrime cadute dalle stessa ciglia che avremmo voluto sfiorare con un bacio. L’acqua passata non macina più, e trent’anni son trascorsi in un baleno mentre eravamo affaccendati dietro altre, più urgenti, questioni; solo ora ci rendiamo conto con una vertigine che non scriviamo più lettere da molto tempo. Come il cane di Pavlov, siamo rimasti condizionati dal fatto di non riceverne più di piacevoli, ché gli unici mittenti testardi nel colmarci la cassetta della posta sono compagnie che reclamano pagamenti, gli enti intenzionati a riscuotere multe o, peggio, l’Agenzia delle entrate. 

Dal momento che le lettere si sono fatte una brutta fama, le cartoline sono rimaste l’unica forma di corrispondenza fisica che non abbiamo mai smesso di praticare, e lo sgomento nello scoprirle orfane dei francobolli ci getta un’ombra pesante sul cuore. Dobbiamo forse ridurci a considerarle vestigia del passato, sostituite in tutto e per tutto da una combinazione di foto e didascalie, distrattamente sgrammaticate, che viaggiano su WhatsApp e Telegram, su Messenger e Direct? Dal momento che la prospettiva ci appare mostruosa, ci riproponiamo di condurre una personale campagna per la valorizzazione della cartolina. L’obiettivo minimo che ci siamo prefissati è quello di inviarne una a ogni parente e amico nei prossimi dodici mesi, e non ci sfugge che si tratterà di un’impresa tanto affascinante quanto impegnativa. In primis servirà fare incetta di francobolli, a costo di sobbarcarci una laboriosa ricerca, quindi apriremo la caccia alle carte postali, premurandoci di selezionare i soggetti più adatti per ogni destinatario. Trovandoci a Milano, ad esempio, potremo reperirne una che mostra il Castello sforzesco in tutta la sua possanza, ideale per lo zio Cleto; a Napoli non mancheremo di trovarne una per la zia Wanda, che ancora rimpiange il viaggio di nozze fra Marechiaro e le falde del Vesuvio, e già che ci siamo ne manderemo anche una di Totò a un ex compagno di scuola che, nei cambi d’ora, ci divertiva imitandone alla perfezione la camminata da marionetta; ci pare doveroso, a questo punto, segnalare che a Rimini si rinvengono ancora con straordinaria facilità modelli vintage che mostrano infilate di chiappe nude sulla spiaggia, accompagnate dalla scritta multicolore “Vacanze cul… Turali”, e non fatichiamo a enumerare tra le nostre conoscenze diversi amici spiritosi in grado di apprezzarle. 

Ci sforzeremo persino di trovare cartoline con le immagini di Messi, Cristiano Ronaldo e degli Avengers da indirizzare ai cugini adolescenti; nessuno deve restare indietro, e per regalare l’emozione di ricevere posta anche alle nipotine in età da asilo andremo a caccia di personaggi Disney e unicorni rampanti disegnati in stile Hello Kitty, zuccherosi cavalli cornuti dalle cui terga sbuca una sospetta scia arcobaleno. È una battaglia di civiltà, la nostra, e saremo più che lieti se i lettori riterranno adatto convenire sotto le nostre insegne, associarsi all’impresa e rinverdire i fasti, almeno per qualche tempo, di un cerimoniale gentile che rischia ingiustamente di finire dimenticato.