Elaborazione grafica di Francesco Stati 

Ambiguità

Il bel libro di Giovanni De Luna e la topica presa con “La vita è bella”

Alfonso Berardinelli

Raccontare la storia d’Italia col cinema è giusto, ma per carità, non con Benigni

Benché scrittore e non uomo di cinema, una volta Gore Vidal disse che il cinema è il più piacevole oggetto di conversazione. Non è facile contraddirlo. Fra tutte le arti, il cinema è da un secolo la più popolare e frequentata, la più accessibile e varia: un genere narrativo nel quale tutto è visibile ma anche musicalmente commentato e i cui personaggi sono persone in carne e ossa, attori ai quali ci si affeziona, di cui ci si innamora e della cui vita privata il pubblico vorrebbe sapere tutto. Materia di cui parlare ce n’è anche troppa. Il cinema è un’arte potente e predatoria che ha fagocitato e spinto in un angolo le arti tradizionali: il romanzo, il teatro letterario e musicale, la pittura. Anche quella cinematografica è, come le altre, un’arte tecnicamente complessa; ma per parlare di film, vicende, attori e registi, non c’è bisogno di essere degli specialisti. Aggiungo solo un’osservazione un po’ deprimente: oggi di film si parla pochissimo rispetto a qualche decennio fa. Non solo la critica cinematografica è in declino come ogni altro genere di critica: poco la si pratica e poco la si legge. Sono gli stessi spettatori che ormai sono quasi muti quando escono da un cinema.

Una volta si discuteva e si davano giudizi appena usciti dal buio delle sale cinematografiche. Oggi perfino un semplice “sì” e un semplice “no” sono rari. Quanto a riflettere sul film appena visto, sembra quasi una cosa inopportuna e da evitare. Il che significa che a forza di tacere non c’è quasi più una cultura cinematografica; si vedono i film e poi li si dimenticano. Tramonto di un pubblico riflessivo? Decadenza del cinema come arte? Assenza e irrilevanza della critica cinematografica? Mi guardo bene dal dare risposte: soprattutto perché risponderei con tre “sì”, ma poi dovrei spiegarmi e giustificarmi, cioè, più o meno, mettermi a studiare e scrivere un libro. Per farlo mi mancano le competenze mostruosamente larghe e sofisticate di Goffredo Fofi, che ricorda a memoria quasi tutto di tutti i film che ha visto (cioè tutti), o di Guido Vitiello, che su un solo film, “Psycho” di Hitchcock, ha scritto un eruditissimo e vertiginoso libro, un capolavoro di stravaganza ossessiva e di sottigliezza ermeneutica (“Una visita al Bates Motel”, Adelphi).


A molte delle questioni appena sollevate o vagamente evocate risponde l’affabile libro dello storico Giovanni De Luna: “Cinema Italia. I film che hanno fatto gli italiani” (Utet, pp. 332, euro 22). Studiando e scrivendo libri sull’Italia del Novecento, De Luna non ha potuto fare a meno di usare il cinema come fonte documentaria e come guida, cosa che nessuno storico (neppure De Luna) mi pare che sia riuscito a fare usando la letteratura italiana e la bibliografia critica che la riguarda. Del resto De Luna cita in nota qualche critico cinematografico, ma nei capitoli dedicati a quasi duecento film stranamente di critica cinematografica non c’è quasi traccia. Evidentemente parlare di cinema, come disse Gore Vidal, è bello soprattutto perché è facile: non è un’attività esclusiva e selettiva, tutti sono ammessi. Il libro di De Luna è una specie di libera conversazione storicamente e politicamente competente sul cinema italiano, i suoi effetti sul pubblico o la dipendenza del cinema dagli umori e dagli appetiti del pubblico. Il maggiore interesse e la più ovvia attrattiva di un tale libro è che volendo o non volendo trasforma i lettori in interlocutori, li coinvolge e li cattura. Tutti infatti si sentono capaci di giudicare la buona o cattiva riuscita di un film, che piace o non piace: i pareri dei critici e degli studiosi di cinema non dispongono di un’autorità molto rispettata dal pubblico.

De Luna comunque è interessato quasi esclusivamente al contenuto e al messaggio politico dei film letti metodicamente come “fonte per conoscere la storia”. Sono condivisibili molti dei suoi giudizi, ma obietto ancora una volta al giudizio positivo che viene dato nelle pagine dedicate a “La vita è bella” di Benigni. È qui, mi pare, che la presunta superiorità oggettiva della valutazione storica porta De Luna fuori strada. Relegati i giudizi negativi sul film nella dimensione effimera, emotiva, dei gusti personali e del giornalismo, De Luna crede di indossare gli occhiali scientifici dello storico per rivendicare la verità storica del film “quasi miracolosamente raggiunta” (sic!). Solo che nel film di verità storica ce n’è poca o nulla; e questo sia nella prima parte, dedicata all’atmosfera gioiosa e giocosa della vita provinciale nell’Italia fascista, sia nella seconda parte, in cui padre e bambino vengono deportati in un Lager in quanto ebrei. Il film non è affatto a due dimensioni, comica prima e tragica poi, è coerentemente a una sola dimensione, quella creata dalla gesticolante e goffamente falsificante recitazione di Benigni: il quale mostra la sua non comune capacità e volontà di falsificare tutto ciò che tocca. Il film è semmai notevole soprattutto per due cose. La prima è che rispecchia non la storia ai tempi del nazifascismo, rispecchia invece la cieca fame di piatto ottimismo dell’Italia anni Novanta. La seconda cosa è che, da quel momento in poi, quell’ottimo comico che era stato Benigni è diventato un pessimo attore in tutte le sue varie recite e apparizioni pubbliche, proprie e improprie.

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