gioghi linguistici

Signore per forza. Così la scrittura si trasforma in una tavolata di femmine contro maschi

Mariarosa Mancuso

Adesso il dizionario è diventato un bieco strumento del patriarcato. Cambiare il significato alle parole è un gioco divertente, ma non porta lontano. Illude

"Forza è un sostantivo femminile”, puntualizza “Il Tempo delle Donne”, kermesse settembrina che dopo l’abbronzatura, da otto anni ormai, fa il punto sui risultati raggiunti e gli obiettivi che restano. Volendo rubare il titolo al romanzo di Sally Rooney: “Conversando tra amiche”. Il dizionario, maschio, appare qui nella veste di bieco esponente del patriarcato. Pur concordando sul genere femminile della parola, riporta una definizione assai diversa. Ma è un segno dei tempi – in generale, non riguarda solo le donne – che chiunque abbia il diritto di scegliere come definirsi, a prescindere da qualsiasi altro elemento. Nel remake di “Scene da un matrimonio” in onda su Sky Atlantic (slogan: Hagai Levi di “In Treatment” e “The Affair” rifà Ingmar Bergman) la prima domanda che un’intervistatrice rivolge a Jessica Chastain e Oscar Isaac è “quali sono i vostri pronomi?” “Lei” per lei e “lui” per lui, sono le pronte risposte – ma i gender fluid pretendono il “they” e “them” (“loro”, che non si fanno irregimentare). Crediamo di sapere cosa sia, la forza. E invece no: “Esiste un altro genere di forza che è fatta di flessibilità, di velocità, di coraggio, immaginazione, creatività, di equilibrio. Una forza libera che ribalta il paradigma stretto della tradizione”.

 

Voilà, ecco il segreto. E il programma per le generazioni a venire. Una forza che non forza. Che vanta tante altre qualità, sicuro – ma se le abbiamo sempre chiamate con altri nomi, c’erano buoni motivi per farlo. “Quando dico una parola, la parola significa esattamente quel che decido io”, dice Humpty Dumpty, l’omino-uovo gigante che cade dal muretto e si fracassa nella filastrocca per bambini, trasportato da Lewis Carroll in “Alice nel paese delle meraviglie”. Alice non è tanto convinta del ragionamento, e ribatte: “Se hai il potere di cambiare le parole”. Certo, è più facile che cambiare le cose. Anche “intelligenza” è sostantivo femminile, molto utile. Cambiare il significato alle parole è un gioco divertente, ma non porta lontano. Illude, piuttosto. E lascia al palo. Il mondo non cambierà la definizione di forza, signore e signorine resteranno – resteremo – al punto in cui siamo, convinte di aver fatto chissà quali passi avanti. Era già successo una volta (come quasi tutto, ma il precedente è istruttivo). Si disse che per le donne era arrivato il momento di fare carriera, in politica e sul lavoro. Di prendere il potere. Non però quel potere brutto e cattivo che i maschi da sempre esercitano, ai nostri danni e ai loro, facendo le guerre. Ancora non era scattata l’onda verdeggiante e il catastrofismo ecologico era di nicchia, tizi poco puliti con cartelli al collo che annunciavano la fine del mondo. Il potere da prendere doveva essere femminile. Convincente senza alzare la voce. Dolce e rispettoso dei sottoposti. Niente tailleur per non scimmiottare i maschi. L’equivalente dei professori che non stavano in cattedra, e molto prima dei banchi a rotelle sistemavano sedie e tavolini in circolo. Risultato, quasi nullo: bisogna imparare a comandare davvero, per farsi avanti nella vita.

Non serve trastullarsi con il dizionario immaginando una via femminile. Riecco la questione, adattata per le nuove generazioni: uno degli appuntamenti alla convention era intitolato “Leadership femminile – alla ricerca di un nuovo modo di fare il capo”. Sappiano le signore che “la capa” (o “la cheffe” per chi parla francese) è ufficialmente adottato dalla radiotelevisione svizzera. Dopo l’intervista si scusano, non possono scrivere nel sottopancia “critico cinematografico” – la capa protesterebbe per il “linguaggio sessista”. Asessuato, sarebbe, ma nel regno delle differenze – i generi sessuali hanno raggiunto il centinaio – bisogna far notare la stranezza: una donna che esprime giudizi (e “non fa prigionieri”, carineria che dobbiamo al poeta Valentino Zeichen: avvertiva così uno che si era lanciato a difendere un film da noi odiato). Il “pensiero della differenza” proclamava: siamo diverse dei maschi, a noi toccano l’accoglienza, la vicinanza alla natura, l’intuito, la cura e altre cose di scarsissimo fascino. Titolo di riferimento, alla kermesse: “Vedi alla voce cura, tra storia e presente”. Oggi si aggiunge un’altra virtù: la resilienza. Scegliere una proprietà dei metalli non pare una gran trovata, per cominciare. E poi vuol dire: incassare i colpi e restare in piedi, di restituirli non se ne parla. Ingoiare il rospo e sorridere. Si fa, se capita (e nella vita capita più spesso di quanto vorremmo). Promuoverla a qualità psicologica unica, e raccomandarla alle donne, succede solo nell’epoca che ha eletto il lamento e il vittimismo a misura del mondo (del mondo che mangia tutti i giorni, perlomeno).

 

I dodici giorni di palestra per la forza femminile nascono da una costola dal Corriere della Sera, che informa sul progredire dei lavori (pur riservando alle giornaliste un solo editoriale annuo, l’8 marzo). Dopo la lezione-spettacolo “La forza verdeggiante – Come imparare a combattere con una canna di bambù” si apre il capitolo Scrittrici. Titolo apparso sul quotidiano di sabato scorso: “Dobbiamo disimparare a scrivere come uomini”. La faccenda si fa seria: la noia del femminismo teorico e pratico l’abbiamo sempre lasciata a chi ne fa mestiere o professione di fede. Ma i romanzi li leggiamo tutti i giorni, da quando neanche sapevamo si chiamassero romanzi. Non permetteremo a nessuno di guastarci il divertimento. Era uno degli incontri letterari, come da copione intitolato “Una stanza tutta per noi”, chissà se Virginia Woolf ha mai avuto un attimo di pentimento, per la frase che oltre all’alloggio con serratura prevedeva 500 sterline l’anno (lei le aveva ereditate).

Chissà cosa si son dette davvero, le partecipanti, sul “disimparare a scrivere come uomini”: chi titola ha fretta e magari riassume malamente. E invece no, veniamo a sapere da un virgolettato che Claudia Durastanti – “La straniera”, e ora la direzione della Tartaruga – ha molto faticato per “smettere di desiderare di imparare a ‘scrivere bene come un uomo’”. Parafrasi, senza la cascata di verbi all’infinito (forse imputabili a chi riferisce la frase). Gli uomini scrivono bene. Claudia Durastanti voleva imparare a scrivere bene (si suppone trascinata dai romanzi di grandi scrittori bianchi e morti). Ora non lo desidera più. Come non ricavarne che scrivere bene è da maschi e che una scrittrice per essere brava deve prendere una strada sua, dunque rinunciare allo scrivere bene? O, nella migliore delle ipotesi, cominciare a “scrivere bene come una donna”. (Bisognava capirlo subito: la scrittura femminile e la forza femminile sono parenti strette). “Tutto si chiarirà nel secondo capitolo”, dice fieramente Snoopy dopo aver buttato giù le prime frasi del suo romanzo: “Era una notte buia e tempestosa. Una porta sbatté. La fanciulla lanciò un grido” (però, che forza, pendiamo dalla sua tastiera). Noi finalmente abbiamo capito perché i romanzi che i gentili uffici stampa caldeggiano con la frase “è nelle tue corde” quasi mai risultano leggibili. “E’ nelle tue corde” vale come standard, come grado zero. Abbiamo anche ricevuto, e gelosamente custodito, una mail con la frase “è una scrittrice piuttosto chicca”. Ricapitolando. Esiste il concetto “scrivere bene come un uomo”. Già fa venire i brividi, perché o la scrittura è buona (finisce in a, femminile, per questo le scrittrici la fanno tanto lunga?) oppure non lo è. Serve orecchio per distinguere una dall’altra, ma se uno è stonato e non distingue una pagina bella da una brutta, il mestiere di critico non fa per lui-lei-loro. Ps: nella trappoletta “ci sono capolavori scritti male” non caschiamo più da qualche decennio. Segue autodafé: io, donna, ho pensato di seguire la via maestra (altre desinenze in “a”, non dovrebbero essere pericolose). Ho preso atto del fatale errore, mi sono pentita e redenta, ora scrivo come mi viene naturale. Senonché la scrittura di naturale non ha proprio niente – “è una dura lotta per costringere le parole a comportarsi bene”, sosteneva Anthony Burgess (pronome “lui”). E può sopportare soltanto una limitata quantità di emozioni. Parliamo delle emozioni telefonate, mandate come messaggi, confezionate per la condivisione: cuoricini che palpitano e soffrono, non potete immaginare quando soffrano, abbiano sofferto e soffriranno. Per chi scrive bene (maschio o femmina che sia) non ci sono limiti. Per chi lavora sugli sfoghi e sull’identificazione, esistono limiti invalicabili – se parliamo di letteratura. Virginia Woolf immaginava una sorella di Shakespeare brava come William, uno che scriveva di uomini e donne, in tono e tragico e comico (e tutti quelli che stanno in mezzo, e in versi). Non una Guglielmina Shakespeare pronta a lamentare le sue sofferenze di donna.

A ottobre uscirà “Crossroads”, ultimo romanzo di Jonathan Franzen. Siccome parla di famiglia (un padre pastore, la moglie e madre di tre figli, in Illinois, negli anni Settanta) tornerà fuori la vecchia polemica con Jody Picoult: perché quando lui parla di famiglie è alta lerreratura, e quando ne parliamo noi scrittrici siamo di serie B? Oltre al resto, il maschio bianco e bravo non si porta più, potrebbe essere accusato di appropriazione culturale: che ne sai tu di una ragazza adolescente anni Settanta? Speriamo gli torni in mente la risposta di John Irving: “Invento, sono uno scrittore”. Ne venne fuori una pesante critica alle pagine letterarie del New York Times, accusate di “sessimo e di gioco sporco: ignorano i romanzi d’amore e detestano la chick-lit”. Celebrano invece i “Jonathan” (Franzen, Safran Foer, Lethem) e tipacci come Gary Shteyngart, russo che scrive romanzi intitolati “Absurdistan”. Da noi, non succede. Le “scrittrici piuttosto chicche” prima o poi incontrano giornaliste o recensore (plurale di “recensora”) altrettanto chicche. Dalla sintonia escono pagine di giornale che sembrano le scuole di una volta, o certe tavolate che subito si spaccano: maschi con i maschi e femmine con femmine. Vige l’apartheid. Con una piccola sorpresa, le scrittrici conquistano sempre più pagine. Sicuro, sono le donne a leggere. Ma da quando la lettura ha sostituito le chiacchiere con l’amica, su figli fatti o da farsi, le diete, i mariti che lasciano alzato l’asse del water? Non vi viene mai voglia, che so, di sapere cosa succedeva a Harlem negli anni Sessanta, raccontato da un genio assoluto come Colson Whitehead? Maschio e nero, bravo anche quando il colore non faceva punteggio, e lui raccontava pazzesche storie di ascensori a New York, e di chi li aggiustava. Cambiamo le regole, cambiamo la definizione di forza, smantelliamo il divertimento della letteratura, già minato dall’autofiction. Prima che vi venga un accidente: Jane Austen era bravissima anche se raccontava di corteggiamenti e matrimoni, ma allora i corteggiamenti e i matrimoni funzionavano come una manovra militare o diplomatica: avanzate, ritirate, bugie, attacchi e contrattacchi.

 

Vorrebbero cambiare le regole anche certe ragazze che con fatica e studio sono entrate alla Normale di Pisa, perché era la Normale di Pisa: un posto dove si entra per concorso, inadatto a chi pretende esami “da preparare in quindici giorni andando al cinema la sera”. Definizione di un professore della Statale di Milano, prima che gli studenti di Letteratura inglese non potessero leggere Dickens: ha un numero di pagine esorbitante rispetto ai limiti stabiliti per un esame. Oddio, ma forse anche Dickens aveva una sorella che ha lasciato ai posteri qualche lista della spesa. È lei che dovremmo leggere, per senso di giustizia e sorellanza (e brevità). Per giustizia e sorellanza dovremmo applaudire le due registe che hanno vinto la Palma d’oro a Cannes e il Leone d’oro a Venezia (che si era già portata avanti l’anno scorso premiando “Nomadland” di Chloe Zhao, americana figlia di cinesi). L’ormai famigerato “Titane” di Julia Ducournau, “una fanciulla che fa l’amore con una Cadillac”. E “12 settimane” di Audrey Diwan, secondo una fan “film amaro e limpido da cui è impossibile uscire indenni”: racconta un aborto clandestino nella Francia degli anni Sessanta. Oltre alla “nuova forza che sarà con noi”, arriverà la pretesa di “un calendario tutto nostro”. Donne e macchine in amore (incidentate, a cofano ancora caldo) erano nel magnifico “Crash” di David Cronenberg, anno 1996 – da non confondersi con il film di Paul “Scientology” Haggis. Era tratto da un racconto di James Ballard, regista e scrittore saldamente ancorati al pronome “lui”. E prima di “12 settimane” (titolo originale “L’événement”, da Annie Ernaux) avevamo applaudito, sinceramente e fino a spellarci le mani, “4 mesi, 3 settimane e 2 giorni” di Cristina Mungiu (rumeno, pronome “lui”). Così è, anche se non vi pare.

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