La madre di Cecilia (a sinistra) ritratta da Francesco Gonin (da Wikipedia)

Bandiera bianca

Per Murgia sarebbe sessista anche Manzoni?

Antonio Gurrado

I capolavori della letteratura riletti con gli occhi di oggi. A partire dai Promessi sposi: anche lì una Cecilia senza cognome, come la candidata di Calenda a Roma

Stavo pensando che anche Manzoni era un bel sessista, se ha eternato uno dei propri personaggi più riusciti col solo nome (“Addio, Cecilia! Riposa in pace!”) senza specificare se di cognome facesse, che so, Colombo, Cazzaniga, Longoni, Fumagalli o magari Frielingsdorf; chi può dirlo? Peggio, Manzoni si macchia di quell’ancor più sottile discriminazione che nell’anglofonia va sotto il nome di ageism e che qui propongo di tradurre vecchismo: dando nome, ma non cognome, alla sola figlia morta anziché alla madre viva, che nel trentaquattresimo dei “Promessi sposi” altro non risulta che “una donna”, riguardo alla quale si dilunga poi in non richieste attenzioni estetiche descrivendola di “bellezza velata e offuscata”, con una venatura di body shaming cui aggiunge la più classica delle notazioni razziste, ravvisandovi “quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo”: offesa gratuita alle piemontesi, alle venete, alle emiliane e così via allargando il discorso.

 

Il sessismo del Manzoni è tale tuttavia che non fornisce cognome nemmeno al frate Cristoforo, rammentando solo che al secolo si chiamava Ludovico; quanto al personaggio chiave di tutta la vicenda, dice addirittura che “di costui non possiamo dare né il cognome, né il nome, né un titolo, neanche una congettura sopra niente di tutto ciò” e che “saremo costretti a chiamare l’innominato”. Talmente sessista, Manzoni, da esserlo sia con le donne sia con gli uomini.

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