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Brutti ma tanto corretti

Il successo tour-museale dei ritratti degli Obama

Francesco Bonami

I presidenti, l’arte mediocre e l’inchino all’arte afroamericana: così i dipinti possono aiutare i politici

Nel Giugno del 1968 il fotografo Paul Fusco era a bordo del treno che trasportava la salma di Robert Kennedy. Le sue foto dei milioni di persone che lungo la ferrovia salutavano il feretro di quello che avrebbe potuto essere il loro presidente sono oggi parte della storia dell’arte oltre a essere un documento eccezionale. Oggi l’America ha altri motivi per piangere ma grazie al cielo non per un presidente morto ammazzato. Anzi centinaia di migliaia di persone hanno potuto e potranno andare a vedere i ritratti di un ex presidente e della ex first lady ancora vivissimi e addirittura al centro di un culto della personalità e della celebrità camuffati, ma nemmeno troppo, sotto le spoglie di una correttezza politica imperante e maestosa anche nel mondo delle arti visive. Mai prima, che io ricordi, gli inquilini della Casa Bianca erano stati strumentali nelle carriere di artisti contemporanei.

 

Barack e Michelle, commissionando nel 2018 i loro ritratti ufficiali a Kehinde Wiley e Amy Sherald, entrambi pittori afroamericani, ma al tempo stesso artisti di mezza classifica, accademici se non proprio mediocri, forse due Boldini ma sicuramente non due Velázquez e nemmeno due Gainsborough, non solo hanno trasformato i due in stelle del mercato dell’arte ma hanno pure aperto la diga di quel fenomeno commerciale culturale che è oggi diventata appunto l’arte afroamericana. I due ritratti, quello di Michelle molto meglio di quello del marito che avrebbe potuto essere stato dipinto da Norman Rockwell, sono i soggetti di un tour partito dall’Art Institute di Chicago e che finirà al Museum of Fine Arts di Houston nel 2022.

Quando i due ritratti furono mostrati per la prima volta alla National Portrait Gallery di Washington i visitatori del museo aumentarono del 300 per cento. Molto probabilmente un’impennata simile si avrà anche nei musei dove i ritratti faranno tappa. Se qualche anno fa al mio collega curatore dell’Art Institute di Chicago o anche ad altri curatori e curatrici di altri musei avessi suggerito di fare una mostra di Kehinde Wiley, mi avrebbero rincorso con un forcone. Se avessi suggerito Amy Sherald mi avrebbero guardato come un vecchio accademico conservatore. Se venissimo a sapere che due ritratti di Xi Jinping e consorte dipinti dall’artista Yan Pei Ming, molto bravo per altro, stanno andando in giro per i musei della Cina, urleremmo alla scandalo e alla celebrazione della dittatura capital-comunista. Non parliamo di un ritratto di Putin dipinto dal vecchio Ilya Kabakov.

 

Ma in occidente e in special modo in America l’arte, particolarmente quella autodichiaratasi “moralmente giusta” ha un potere speciale. Se sostenuta poi da una divinità politica e razziale come Obama non ce n’è più per nessuno. Non saremo noi italiani a scandalizzarci per un politico che aiuta la carriera di uno o più artisti mediocri. Il ritratto di Mario Draghi o del presidente Mattarella realizzato da Fabrizio Plessi potrebbe farci rimpiangere amaramente di non avere un Kehinde Wiley casalingo.

L’arte però può anche aiutare i politici. Altra faccia della medaglia dei ritratti degli Obama sono i dipinti di un altro ex, George W. Bush. Una vera e propria rivelazione, in particolare gli autoritratti nella vasca da bagno o sotto la doccia. Il guru e critico Jerry Saltz, accanito nemico di ogni presidente repubblicano, sul suo profilo di Instagram è arrivato a dire che l’arte di Bush potrebbe quasi redimerlo dalle tante malefatte compiute da presidente. I dipinti di G.W. sono in effetti sorprendenti e, se i musei non si vergognassero di averlo all’inaugurazione, una piccola mostra se la meriterebbero.

Bush potrebbe comunque chiedere una spintarella a Michelle Obama con la quale era diventato pappa e ciccia dopo l’ascesa al trono di Trump. Nessun curatore avrebbe il coraggio di rifiutare un favore a una o un Obama. La morale di questa favoletta che si potrebbe intitolare “Il pittore e il presidente” è banalmente questa: l’arte è sempre stata al servizio del potere. Un tempo il potere sceglieva l’arte migliore per farsi rappresentare. Oggi il potere sceglie l’arte minore perché la migliore potrebbe, in tempi di social, rischiare di far ricordare più il nome dell’artista che quello del politico. Ma bisogna anche dire che l’arte, vedi Bush, Churchill e tanti altri, è servita ai politici a disintossicarsi dal potere ritrovando gli avanzi della propria ammuffita umanità. Quindi tutto è bene quel che è dipinto bene.
 

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