La scrittice basca Aiza de la Cruz (foto Wikipedia)

Aixa de la Cruz, ovvero come l'autofiction diventa la strada per la modestia letteraria

Antonio Gurrado

“Transito” contiene confessioni di atti sessuali e più ancora di convinzioni al riguardo che, provenissero da un Roth o da un Updike, avrebbero già fatto chiudere la casa editrice

"L’autofiction come forma di scrittura la usano solamente i tipi noiosi e tronfi e le signore ebree”, ha detto a un certo punto un’amica ad Aixa de la Cruz, autrice basca trentenne, voce emergente della letteratura spagnola, ospite in questi giorni al Festival Letterature di Roma. Deduco che, non essendo né noiosa né tronfia (né signora ebrea), sia allora per bastiancontrarismo che Aixa de la Cruz ha scritto questo libro appena tradotto da Giulio Perrone Editore con un titolo, “Transito”, che può ingenerare qualche equivoco. Se volete leggerlo come testimonianza autobiografica della contorta evoluzione di una provocatoria autrice queer, della quale sentiremo parlare per decenni, su temi come l’identità di genere e il #MeToo, liberissimi di farlo; non vi seguirò. Preferisco affidarmi al titolo originale, “Cambiar de idea”, e scandagliare il romanzo breve ma intenso alla ricerca di quale illuminazione improvvisa l’abbia spinta a scrivere le proprie memorie a trent’anni, cosa che parrebbe prematura. 

Aixa de la Cruz ha scelto l’autofiction per lo stesso motivo per cui non compra mai un biglietto della lotteria. Non lo fa, scrive, “perché le cose, buone o cattive, succedono sempre a terzi”. Una narrativa credibile in prima persona è una narrativa in cui le cose non succedono, che esclude l’avventuroso e il rivelatorio, una narrativa che non conclude e non insegna nulla. Vale dai tempi di Montaigne: chi pretendesse di spiegarci cos’ha capito nella vita, cos’è giusto e cos’è sbagliato, rimedierebbe la stessa figura di chi scrive per vantarsi di aver pescato un tonno enorme, o di essere rimasto chiuso in ascensore con la sua attrice preferita, o di guadagnare cifre che nemmeno immaginiamo.

Non mi aspettavo che l’autofiction potesse essere la strada per la modestia letteraria. Accade perché, spiega Aixa de la Cruz, il genere memorialistico affonda le radici nelle “confessioni dei delinquenti che circolavano nell’Inghilterra del XVIII secolo”, “pamphlet pubblicati dalla Chiesa con intento educativo-deterrente in cui venivano narrate le carriere criminali dei condannati a morte”. Il mestiere di romanziere si affermò perché c’era più domanda che offerta, troppi lettori e pochi delinquenti; bisognava inventare delle confessioni perché il pubblico avesse qualcuno con cui prendersela. La narrativa nasce come autofiction mendace, perdendo il proprio fine edificante.

Qualcosa del criminale dev’essere rimasta addosso agli scrittori nei secoli ed è per questo che quegli autori sempre dalla parte giusta della storia e dell’etica suonano posticci, inverosimili e inaffidabili financo quando postano sui social la foto della pietanza che stanno per sbafare. Nella ricostruzione ondivaga e folgorante della formazione della propria identità intellettuale e umana (sì, ovvio, anche sessuale), Aixa de la Cruz si dichiara più a proprio agio con la confessione che con la testimonianza, a differenza degli scrittori che si vergognano e vogliono recidere il legame con le radici delinquenziali del mestiere mostrandosi immacolati. Sono loro che sono noiosi e tronfi, altroché.

“Transito” contiene confessioni di atti sessuali e più ancora di convinzioni al riguardo che, provenissero da un Roth o da un Updike, avrebbero già fatto chiudere la casa editrice. Ma l’autrice è giovane, è donna, è queer, c’è rischio che un pubblico altrimenti spietato le perdoni tutto relegandola nello scaffale dei libri edificanti. Aixa de la Cruz sembra avvertirlo e decide di tornare alle radici del mestiere di scrittore, fornendo un’autoaccusa in piena regola: “Niente mi spaventa di più della genealogia delle mie pratiche sessuali, l’origine dei gesti che mi eccitano – la mano di un uomo che mi stringe il collo, la mia mano che stringe il collo di una donna – e questo è il momento meno adatto per confessarlo”. Ma la stessa amica di prima, davvero incontentabile, dopo averlo appreso le risponde: “Se scriverai un romanzo sulla colpa, è meglio che tu sia colpevole di qualcosa di più grosso”.

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