Lo scrittore Carlo Dossi (1849 -1910), l'ultimo a destra nella foto, con i suoi amici. (LaPresse)

"Un'intima ragioneria"

Dossi cercò in Lombroso la chiave per studiare la propria follia. La trovò nella scrittura

Antonio Gurrado

Il gran scapigliato lombardo, prima ancora che da scrittore avvertiva la propria vocazione da paziente. E nella letteratura, anzi nella “autodiàgnosi, scorse la terapia 

Se siete Emmanuel Carrère, avete appena pubblicato “Yoga” ma troppa autofiction vi sta causando guai con amici e parenti, seguite l’esempio di Carlo Dossi e passate alla “autodiàgnosi”, come avrebbe scritto lui con l’immancabile accento. Che la letteratura sia lenitivo delle malattie, è risaputo; che spesso germini da esse è consolante. Ma che la scrittura abbia valore terapeutico è questionabile: solo pochissimi autori l’hanno provata così, senza infingimenti né sipari in semitrasparenza. Dossi, il gran scapigliato lombardo, prima ancora che da scrittore avvertiva la propria vocazione da paziente. Nato settimino, affetto dall’itterizia, col testone sul corpo esile; sotto un albero genealogico di stramberie culminante in un cugino ricoverato in manicomio; propenso all’esaurimento psichico, talvolta in preda ad “assenze cerebrali” durante le quali, scriveva, correva “ben poca differenza fra lui e un cretino”.

 

E poi incatenato a una personalità scissa al punto da scrivere indifferentemente con due grafie, una da graziosa ragazzuola, un’altra da ponderoso curato; prigioniero di “una popolazione di Ii, uno diverso dall’altro”. Dossi tentò di sublimare la propria condizione nell’autofiction scrivendo nel 1870 un’opera in cui prendeva le distanze da se stesso: la “Vita di Alberto Pisani scritta da C.D.”, dove il biografo nascosto dietro le iniziali è lui, ma lo è anche il biografato, visto che all’anagrafe era Carlo Alberto Pisani Dossi. Fallì; non letterariamente ma sanitariamente, ergo s’infisse nel tentativo di comprendere quanta follia vi fosse nel proprio genio, e perché gli risultasse dannosa. Lo illuminò la lettura di un saggio che sembrava scritto apposta, il “Genio e follia” pubblicato da Cesare Lombroso nel 1876. Ai rapporti fra Dossi e Lombroso, alla loro affettuosa simmetria di emarginati nella cultura ottocentesca, è dedicato uno studio di Maria Antonietta Grignani e Paolo Mazzarello, “Ombre nella mente” (Bollati Boringhieri). Dove Lombroso descriveva “la pazzia degli eccentrici” – “individui che hanno una tendenza continua a movimenti energici e disordinati, ad azioni bizzarre e contradittorie, tormentatori di sé e degli altri, scrittori facili ma paradossali, di attività febbrile seguita da grande depressione” – a Dossi parve di vedersi in dagherrotipo.

 

Si mise allora, per inviarla all’alienista di cui era diventato estimatore e amico, a stendere “l’embrione di un’autostatìstica, o per dirla all’italica, di un’intima ragionerìa del cèrebro”: la “Autodiàgnosi”, appunto, che fra i suoi libri consapevolmente destinati all’impopolarità gli parve il più rilevante perché, almeno, poteva “figurare sugli scaffali di uno psichiatro”. Guarì? Macché. Se non altro s’interpretò allo scopo di confermare su di sé le balzane teorie mediche di Lombroso; rappacificato, poté trarre giovamento dall’introduzione di una nuova categoria dello squilibrio. Lombroso infatti (pensando a Dossi? speriamo di no) ventilò l’esistenza di “mattoidi letterari”, ovvero “pseudo-letterati, pseudo-scienziati, pazzi incompleti, pazzi a mezzo”; erano costoro “la negazione del genio”. Ecco dunque che, per confermare il proprio genio entro quel “continuo indefinìbile malessere” che lo attanagliava, e che lo faceva sputare un’oncia di sangue a ogni riga, e che mai gli faceva portare a compimento le grandi idee abbozzate, Dossi si mise a definire per contrasto le ambizioni dei mattoidi che lo circondavano, convinti che il loro genio trovasse facile realizzazione ma venisse osteggiato da un tacito complotto.

 

Li trovò nei candidati al progetto del monumento funebre a Vittorio Emanuele II: di circa trecento progetti, duecentosedici gli parvero di “ingegno mediocre”, trentacinque proposte di “menti semplicemente cretine”, ma trentanove preziosissimi tiravano alla follia, erano “poveri bozzetti fuggiti od avviati al manicomio”. Uno proponeva Castel Sant’Angelo come base del monumento; uno voleva collocare la statua equestre su una massa opaca di nuvole di cristallo; uno voleva trasformare la Mole Adriana in faro elettrico. Ne venne fuori forse il vero capolavoro del Dossi, “I mattoidi al concorso pel monumento a Re V.E. in Roma” (1884), a riprova che, per uno scrittore, il miglior modo di guarire da una malattia dell’animo è scrivere di quelle altrui.

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