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La civiltà dei nomi

Michele Magno

Un tempo separavano i nobili dai cittadini comuni. Poi divennero motivo di discriminazione. Storia dei trecentomila cognomi italiani

La celebre locuzione latina “nomen omen” (il nome è un presagio) riflette la teoria degli antichi sul carattere non arbitrario del linguaggio. I cognomi, non meno dei prenomi, oggi di solito ci appaiono casuali, privi di significato: non ci si chiama Fabbri perché si esercita il corrispondente mestiere; si può essere alti due metri e chiamarsi Basso. Ma quando si cominciò a essere apostrofati con un secondo nome? Secondo un eminente erudito del Settecento, Scipione Maffei, già nel 539 compare in un papiro ravennate un tal Pellegrino Vaistrini, a cui una certa signora Tulgila aveva venduto un terreno nella zona di Faenza. Un contemporaneo di Maffei, Ludovico Antonio Muratori, fondatore degli studi medievistici in Italia, nelle sue Antiquitates Italicae (1740) dimostra che si trattava di un falso, e che non esistevano cognomi prima dell’anno Mille. Dietro la sua tesi perentoria non c’era solo il rigore critico del filologo, ma una visione storica. Egli era infatti convinto che le origini della civiltà italiana non fossero nella Roma repubblicana e augustea, secondo la classica idea degli umanisti, ma nel Medioevo, epoca in cui si erano verificati rivolgimenti tanto forti da creare una decisiva rottura col mondo romano.

E’ proprio all’Età di mezzo che risalgono le “Costituzioni melfitane” di Federico II (1231), che rendevano obbligatoria la menzione dei nomi e cognomi dei criminali esiliati dal regno di Sicilia. Ancora prima il re Ruggero II aveva fatto redigere fra il 1150 e il 1152 un elenco dei nobili che gli dovevano prestare un servizio militare. Più volte aggiornato fino all’epoca sveva, questo elenco, intitolato in seguito “Catalogus baronum”, cioè catalogo dei baroni, registrava centinaia di denominazioni destinate a trasformarsi nei cognomi della nobiltà meridionale. Poco più tardi saranno i comuni del centro-nord a fissare nei loro statuti le procedure per l’identificazione dei cittadini, indispensabile per il buon funzionamento dell’apparato amministrativo, giudiziario e fiscale.

E’ però nel corso del Rinascimento, in cui si afferma il primato dell’aristocrazia del sangue e del blasone famigliare, che il cognome assunse un ruolo decisivo nell’accesso alle cariche pubbliche e nella definizione delle gerarchie sociali. Accadde così che “chi aveva ambizioni e mezzi ma soffriva sotto il peso di un cognome indicativo di un passato modesto cercasse di cambiarlo; chi ne vantava uno di buon prestigio brigasse per farlo risultare ancor più altisonante; e chi godeva per puro caso di una fortunata omonimia imbrogliasse le carte per rivendicare dei rapporti di parentela illustri” (Roberto Bizzocchi, “I cognomi degli italiani. Una storia lunga 1000 anni”, Laterza, 2014).

Manipolazioni e veri e propri falsi, dunque, ampiamente testimoniati dalla letteratura e dalla documentazione storica del Cinquecento e del Seicento. Un dettagliato censimento redatto a Venezia nel 1670 divideva gli abitanti in nobili, cittadini e artefici, ossia artigiani.  Scopriamo così che questi ultimi sono denominati tutti nello stesso modo: “Andriana cortesan” (prostituta), “Bernardin acquarol”,  “Margarita incanna seda”, “Nadalin pescador”, e così via, sempre senza un cognome. Il bando del censimento emanato dai Provveditori alla Sanità ne chiarisce il motivo. Mentre per i nobili e i cittadini ordinava di indicare il cognome del capo di casa, “nelli artefici in loco del cognome si metterà l’esercitio”. Le autorità erano interessate a conoscere le risorse economiche e tecniche di cui disponeva la Serenissima, per cui i mestieri esercitati dagli artigiani apparivano più rilevanti dei cognomi, i quali potevano dunque tranquillamente essere trascurati.

Segno diverso ebbero i censimenti demografici promossi dal granduca Pietro Leopoldo in Toscana (1767) e dalla monarchia asburgica in Lombardia (1784): il loro scopo era quello non solo di conoscere i nomi, ma il censo e le condizioni di vita dei sudditi, dati indispensabili per riformare la riscossione delle tasse e  aggiornare il catasto immobiliare. Per altro verso, negli stessi anni Jeremy Bentham rifletteva su come prevenire i crimini nella società inglese, che stava facendo i conti con l’incipiente rivoluzione industriale. La maggior parte dei reati non verrebbe commessa –argomentava il giurista e filosofo dell’utilitarismo – se i delinquenti non sperassero di sfuggire alla punizione grazie alla facilità con cui si confondevano in una indifferenziata moltitudine. Solo la certezza dell’identità personale di ogni individuo – concludeva – poteva evitare questo rischio.

La disciplina onomastica elaborata dai sovrani settecenteschi verrà perfezionata  durante la dominazione napoleonica e confermata dai governi della Restaurazione. La necessità del cognome fu sancita per tutti i residenti. Nell’Italia unita, la legge istitutiva dello stato civile (novembre 1865) impose il possesso di un cognome. Con l’avvento del regime mussoliniano, prese corpo il tentativo di italianizzare i cognomi stranieri dei territori annessi dopo la Grande guerra. Già nel biennio 1926-1927 furono varati diversi decreti per favorire la loro correzione nella lingua di Dante e rendere obbligatoria la “restituzione” di quelli italiani germanizzati o slavizzati sotto gli Asburgo. Nonostante l’impegno profuso dal senatore irredentista Ettore Tolomei nel cosiddetto “lavacro dei cognomi”, il grande prestigio culturale di cui allora godeva il mondo germanico, e successivamente l’evoluzione dei rapporti con il Führer, resero impossibile l’operazione. Per questa ragione i nostri connazionali altoatesini hanno per lo più conservato i loro cognomi. Sicché oggi, oltre alla giornalista Lilli (o Dietlinde) Gruber (“Grube” in tedesco significa fossa), tutti conoscono i tanti campioni della neve e del ghiaccio, della marcia e del tennis, che hanno mietuto successi sotto la bandiera tricolore chiamandosi Messner, Kostner, Thöni, Zöggler, Schwazer, Sinner.

L’elevato numero dei cognomi italiani, ben oltre trecentomila, è in parte l’effetto della complessità di queste vicende politiche, culturali e dialettali. Benché si sia ancora lontani dall’averli studiati tutti a fondo (il dizionario generale più ampio ne analizza circa un quinto), i linguisti solitamente li suddividono in quattro categorie principali. La prima è quella dei cognomi patronimici o matronimici, cioè formati da nomi di persona maschili o femminili. Essi si presentano in forma composta – Di Pietro, De Luca, D’Agata, De Maria – o in forma semplice: Paoli, Martini, Rosi, Agnesi. La seconda è quella dei cognomi toponimici, ossia di provenienza da qualche luogo. Entro questa categoria va segnalata una partizione in due gruppi. Nel primo il riferimento riguarda entità geografiche così importanti da trasformare il cognome toponimico in cognome etnico. Un cognome quale Bulgari ci ricorda le scorrerie delle popolazioni orientali durante l’Alto Medioevo. Alla stessa stregua, cognomi come Longobardi (o Lombardi), Greco, Albanese, alludono agli stanziamenti dei rispettivi popoli nelle varie regioni della penisola. Il secondo gruppo comprende i cognomi formati da elementi di paesaggi urbani o naturali (Della Rocca, Montanari, Della Porta, Delle Piane). 
La terza categoria corrisponde ai cognomi derivati da mestieri, cariche, funzioni sociali esercitate. Basta ricordare il già citato Fabbri e il suo sinonimo Ferrari, con le sue varianti regionali: Ferrero in Piemonte, Favaro in Veneto, Ferreri in Sicilia. Oppure cognomi quali Podestà, Vicario, Rettori, Cancellieri; o quali Compare, Padrini, Fratello, La Sorella. In questa ultima sottocategoria si possono classificare anche i cognomi tipici dei trovatelli (Esposito, Trovato, e altri). La quarta categoria, infine, riunisce la variegata e lussureggiante gamma dei cognomi formati dai soprannomi, come quello di chi scrive, Rossi, Russo, Gentile, Sordi, Bellini; ma anche Falco, Volpe, Vacca, Beccalossi, Tagliavini, Pelagatti; e Sottile, Cerasa, Merlo, Capone, Caruso (mi scuso se ho dimenticato qualche amico del Foglio).

Per concludere, una breve nota sulla corrispondenza fra nome di luogo e ebraismo (per non scordare il nostro Giuliano Ferrara, appunto). Una scena toccante del film di Luigi Comencini “Tutti a casa” (1960), ambientato dopo l’8 settembre 1943, mostra un soldato tedesco che esamina sospettoso i documenti dell’ebrea Silvia Modena, con i compagni della ragazza che cercano di proteggerla fingendo di ignorare l’esistenza di una città con quel nome. Nello stereotipo c’è ovviamente una parte di verità. Fin dal Duecento gli ebrei gestivano il prestito al minuto, stabilendosi così in centri abitati, grandi e piccoli. Data la ristrettezza del patrimonio ebraico di nomi di persona, quando nel corso dei secoli si rese necessario avere dei cognomi, venne naturale assumere quelli dei luoghi di residenza.

Nel 1925 l’ebreo Samuele Schaerf pubblicò a Firenze un libretto intitolato I cognomi degli Ebrei d’Italia, corredato da un’appendice sulle “Famiglie nobili ebree d’Italia”. Secondo Bizzocchi, l’elenco di cognomi ebraici catalogati dall’autore non ha un fondamento storico. La distinzione tra cognomi ebraici e cognomi cristiani, infatti, è a dir poco problematica. Solo alcuni cognomi si possono davvero considerare peculiari dei membri delle comunità ebraiche italiane: per esempio, Coen ( sacerdote), Levi (nome anche della Tribù che ottenne dal Signore la primogenitura sacerdotale), Toaff (venditore ambulante o guardia notturna), Gabbai (funzionario della comunità). D’altro canto, nella lista di Schaerf compare clamorosamente anche il cognome Rossi, circa il quale non si può dubitare che sia stato e sia tuttora anche quello di non ebrei.

Resta il fatto che l’intento di Schaerf era chiaramente patriottico e positivo, quello cioè di rivendicare il contributo offerto dagli ebrei – dal Risorgimento al Primo conflitto mondiale – alla costruzione dello Stato unitario. Nelle pieghe della campagna antisemita lanciata dal fascismo, la sua opera fu invece utilizzata per meglio organizzare la discriminazione e la persecuzione. Il testo di Schaerf venne ristampato con questo nuovo scopo, e, quando furono emanate nel 1938 le leggi razziali, il suo elenco fu incrociato con l’albo dei pubblicisti per dare la caccia ai giornalisti e scrittori ebrei.

La certezza che esistesse un patrimonio antropominico esclusivamente ebraico ispirò la legge del luglio 1939, che espose gli ebrei italiani a una gogna spregevole, creando una sorta di ghetto onomastico. Oltre a una clausola limitativa in materia testamentaria, la legge ordinava “ai cittadini italiani appartenenti alla razza ebraica […] che avessero mutato il proprio cognome in altro che non riveli l’origine ebraica, di riprendere l’originario cognome ebraico”. Il nome diventava così un marchio infamante, una specie di sostituto della stella gialla di David reintrodotta dal nazismo (stigma del deicidio e della lussuria, come aveva ribadito solennemente il Concilio Lateranense del 1215). Una crudele e funesta eterogenesi dei fini, di cui purtroppo è cosparsa la storia umana. 

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